La visita di Jean-Luc Mélenchon a Roma, a sostegno di Unione Popolare, ha reso palpabile la differenza esistente tra la situazione francese e quella italiana.
Non solo per quanto riguarda le condizioni della “sinistra radicale” (comatose qui, di nuovo in ascesa Oltralpe), o in relazione al differente grado di conflittualità sociale (“stranamente” corrispondente al dato politico). Ma soprattutto sul piano della riflessione generale intorno al punto di crisi in cui il mondo e l’Europa si trovano.
Chi come noi ha seguito la due giorni di comizi, interviste, conferenza stampa, dialoghi privati, ha potuto toccare con mano come il punto più debole della “compagneria” italiana sia proprio l’asfittico dibattito sopra temi che non siano quelli della piccola tattica quotidiana.
Si può naturalmente avere una serie di opinioni differenti su questo o quel tema affrontato da Mélenchon, ma indubbiamente il confronto con La France Insoumise costringe ad alzare il livello della discussione e a portare lo sguardo ben sopra il coretto stonato imposto dai media mainstream ma sostanzialmente accettato anche “a sinistra”.
Crisi economica, industriale e finanziaria dell’Occidente sono – nel discorso pubblico di Mélenchon – strettamente interconnessi con la crisi climatico-ambientale. Mentre qui da noi i temi “ecologisti” sono giustapposti quasi per caso alla lunga lista di problemi di cui si parla – o ciancia – nei “programmi elettorali”; oppure costituiscono un ambito di (presunta) esclusiva competenza di specialisti che si disinteressano del resto (economia, società, giustizia, ecc.).
Dunque ogni ragionamento sulla “via d’uscita” dalla situazione attuale deve necessariamente investire il modello di sviluppo, produzione, appropriazione, sfruttamento della natura oltre che degli esseri umani. Il “sistema” nel suo insieme, insomma, non qualche “correttivo” più o meno accattivante.
In questa chiave, la riflessione sugli errori della sinistra comunista e/o socialista e la necessità di aggiornare la “visione del mondo” – che tanto ha contribuito, qui da noi, a smantellare la capacità critica della sinistra radicale – assume un tono tutt’altro che autocritico e piagnone. Anzi parte proprio dal recupero pieno del patrimonio essenziale del movimento operaio e lo mette alla prova del mondo presente, con effetti a volte sorprendenti, ma mai banali. E tanto meno rassegnati.
È con questa assai differente radicalità di pensiero che La France Insoumise ha potuto interfacciarsi in modo credibile – con tutte le difficoltà del caso – ai vari movimenti sociali che hanno attraversato l’Esagono negli ultimi anni. E proprio questa dialettica tra spinta sociale e sponda politica è tornata a vantaggio sia della conflittualità sociale sia dell'alternativa politica.
Detto altrimenti: solo chi elabora una visione coerente (ancorché imperfetta e migliorabile, in progress) della necessità di superare il sistema dominante, indicando concretamente possibili soluzioni davvero alternative, ha anche la credibilità sociale per proporsi come portatore di soluzioni. Come rappresentanza politica, insomma.
Anche la critica della guerra in corso segue un percorso simile. Anziché farsi ingabbiare – come anche Mentana o il Tg2 hanno provato a fare – nella dicotomia falsaria tra “w l’Ucraina” o “Putin ha le sue ragioni”, Mélenchon ha esibito la logica del pacifismo radicale come l’unico “realismo” possibile.
Vero, ha spiegato più volte, che la Russia ha varcato un confine e dato guerra a un “paese sovrano”, proprio come hanno fatto gli Stati Uniti e la Nato negli ultimi 30 anni in vari angoli del mondo ed anche in Europa (chissà perché nessuno cita più la guerra che ha dissolto la Jugoslavia, qui da noi). Ma è anche vero che la Russia aveva più volte proposto (anche pochi mesi prima dell’intervento militare) di affrontare congiuntamente i problemi della guerra di Kiev contro il Donbass. Ricevendo una sprezzante indifferenza statunitense e dunque anche europea.
Ma al dunque, ora: “seguiamo le vie della diplomazia, affrontando tutti i temi e le contraddizioni intorno a un tavolo di trattativa, oppure continuiamo sulla strada che porta alla guerra nucleare totale?”.
È qui che, all’evidenza, si stronca la retorica bellicista dei nostri “opinionisti”, appena meno brutali della neopremier britannica Liz Truss (“Penso che sia un dovere importante del primo ministro [essere pronto a schiacciare il pulsante che lancia i missili nucleari] e sono pronta a farlo”).
Molto altro è venuto fuori da questo confronto necessariamente assai sintetico, ma non faremmo un buon servizio ai nostri lettori se “strizzassimo” temi complessi in poche battute. Non mancherà tempo ed occasione per riparlarne in maniera esaustiva, e dunque produttiva.
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