Recentemente Flavio Rossi Albertini, avvocato difensore di Alfredo Cospito ha dichiarato che lo stato italiano è “fermo al 1978”. Va detto che allora il primato della politica dell’emergenza, della mano forte dello stato per risolvere i problemi, era già inadeguato per la società della fine degli anni ’70. Tanto inadeguato da contribuire all’inaridimento della stessa società di allora trasformatasi poi in un anonimo contenitore di interessi. Oggi, in una società plurale, nella quale il legame sociale si riproduce in mondi irriducibili tra loro, uno stato fermo al caso Moro rischia di essere altrettanto, e forse più, dannoso di allora.
La parola chiave, per misurare l’arretratezza della cultura istituzionale di questo paese, è ravvedimento. Parlando del caso Cospito il sottosegretario alla giustizia, il leghista Andrea Ostellaro, ha affermato che una eventuale “clemenza” nei confronti del detenuto è possibile solo con un “ravvedimento” da parte dell’anarchico detenuto in carcere. Insomma, siamo al muro contro muro visto che si sta parlando di un soggetto, in sciopero della fame, che si è dichiarato pubblicamente nemico dello stato, che in aula ha dichiarato “gioia” al pensiero della gambizzazione fatta al dirigente dell’Ansaldo Adinolfi, che ha manifestato quanto per lui possibile il proprio pensiero insurrezionalista. Il caso Cospito è quindi esemplare per due ragioni: il permanere dei comportamenti di emergenza, duri, da parte dello stato anche in assenza di validi motivi e la reiterazione della convinzione che, anche in una società plurale come la nostra, esistano manifestazioni di ravvedimento ai quali tutti devono, e possono, attenersi. Nel primo caso le istituzioni cercano consenso in manifestazioni di forza sproporzionate rispetto all’offesa ricevuta, nel secondo tentano l’impossibile compito di proporzionare i comportamenti sociali secondo i loro metri che poco hanno a che vedere con la realtà. Naturalmente, la realtà fa sempre capolino viste le difficoltà del ministro della giustizia Nordio, ufficialmente garantista, che da una parte deve tenere Cospito nel regime di carcere duro, per mantenere la linea della fermezza del suo governo contro “gli anarchici”, dall’altra deve evitare che la situazione sanitaria del detenuto degeneri per dare un segnale di tenuta, specie a chi ha commesso reati da colletti bianchi, della linea sedicente garantista del ministero della Giustizia.
Cospito è stato condannato nel 2012 per aver piazzato, 6 anni prima, due ordigni esplosivi davanti a una scuola allievi per Carabinieri a Fossano, in Piemonte. Era un atto dimostrativo, pianificato per non creare feriti, per il quale Cospito, inizialmente, doveva scontare 20 anni. Durante la detenzione, dal carcere, ha continuato a scrivere, pubblicando diversi articoli per riviste anarchiche – un atto concesso ai detenuti – fino a che, nel 2022, il Ministero della giustizia del governo Draghi (presieduto da Marta Cartabia) ha deciso di sottoporlo al 41bis. La Corte di Cassazione ha inoltre cambiato, a luglio, il reato contestato a Cospito: da tentata “strage contro la pubblica incolumità” a tentata “strage contro la sicurezza dello Stato”. Come è stato notato da più parti nemmeno per le bombe di Bologna, di Capaci o di via D’Amelio si utilizzò lo stesso metro. Questo significa, per lui, ergastolo ostativo e 41 bis, nessun sconto di pena possibile fino alla morte e regime di carcere durissimo. Fa bene ricordare che l’ergastolo ostativo è stato definito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo come un provvedimento che viola l’articolo 3 della regolamento della stessa corte (quello sulla tortura) e che il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano del 1986 risalente all’epoca del maxiprocesso di Palermo, rafforzato nel 1992 durante la stagione delle stragi mafiose e che riguarda la repressione di un tipo di organizzazione criminale che ha lasciato il passo ad una mafia ben differente da quella stragista.
L’equiparazione da parte della magistratura di Cospito ai boss mafiosi di trenta anni fa, per tenerlo al 41 bis come se fosse una specie di Provenzano dell’area anarchica da cui proviene, farebbe sorridere se non ci fosse una vita di mezzo. Cospito fa parte di un mondo che rifiuta lo stesso concetto di capo e quello di gerarchia, concetti invece ben radicati nella mafia tradizionale. E qui si ritorna al problema di fondo, delle istituzioni che violano i diritti dell’uomo, che tengono in vita per decenni strumenti emergenziali, che neanche si pongono il problema di come sia fatta la società che intendono governare. Il risultato è quello di sempre: affrontare ogni criticità come se fosse una insurrezione in atto, comminare pene sproporzionate, allargare la forbice tra istituzioni e società dando un ulteriore contributo all’inaridimento del tessuto sociale per tenere in vita un po' di consenso attorno alle politiche di inasprimento della pena.
Negli ultimi decenni, fa spavento ricordarlo, nella società, e nell’ordinamento giuridico, hanno prevalso due concezioni della pena: una “garantista” che, guarda caso, si attiva per reati che riguardano le classi alte della società e una giustizialista che richiede l’inasprimento della pena per tutto il resto del corpo sociale intendendo la pena sia come punizione esemplare del reo che come soluzione al problema sociale esistente. Quasi inutile dire che in tutto questo periodo non abbiamo avuto né una società più giusta né una più pacificata. Il caso Cospito, se surrealmente elevato a pericolo estremo per lo stato, rischia solo di essere una ennesima puntata di questa storia. Eppure nel respingere la cultura del ravvedimento, che è semplice medievale richiesta di sottomissione, e nell’affermazione puntuale dei diritti di Cospito, sottoposto a misure censurate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, passa una visione alternativa di un rapporto tra stato e società che mai è stato pacifico ma che oggi sembra soprattutto velenoso.
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