L’opposizione alla guerra e alla NATO
Se è vero che la Candidatura d’Unitat Popular ha emesso tempestivamente un comunicato chiaro e deciso di condanna della guerra e della NATO, è altrettanto vero che dentro l’esquerra independentista e anticapitalista non mancano le sfumature.
Ma la posizione di fondo si caratterizza in sintesi per un’analisi che contestualizza la mossa di Putin nel quadro dell’allargamento a est della NATO e delle responsabilità degli stati occidentali in un conflitto di natura interimperialista. Accanto a questa analisi assai condivisibile però, non si può fare a meno di notare la mancanza di una altrettanto valida pratica politica: in questi mesi di guerra è sembrato insufficiente l’impegno per la costruzione di uno schieramento contro la guerra e la NATO.
A parte la prima reazione, e dopo una manifestazione tenutasi a Barcellona, il movimento contro la guerra sembra aver rinunciato a farsi ascoltare. Certo non ha aiutato a riempire le piazze la posizione della sinistra al governo dello stato: Podemos fa parte a pieno titolo del governo a trazione socialista che negli ultimi due anni ha aumentato a dismisura la spesa militare e che continua a inviare armi all’Ucraina, in piena osservanza del diktat euro-atlantico.
Il recente annuncio dell’invio all'Ucraina dei Leopard 2 in dotazione all’esercito spagnolo, deciso dopo che il governo tedesco ha reso pubblico l’invio dei propri carri armati, conferma questo dato di fatto e acuisce le contraddizioni interne alle sinistre dello stato.
Qui di seguito si propone l’analisi di Endavant (una delle principali organizzazioni dell’esquerra independentista e anticapitalista) sviluppata in un documento dell’anno scorso, redatto subito dopo l’inizio delle ostilità che ci consegna uno sguardo sulla guerra e sullo scenario internazionale dall’angolo specifico dei Països Catalans.
Relazione sulla guerra in Ucraina. A cura di Endavant (09/03/2022)
La terribile guerra che si sta svolgendo in Ucraina ha cosí tanti livelli di lettura da richiedere un’analisi approfondita e in costante aggiornamento. Solo a partire da una prospettiva che tenga in conto questa complessità, mantenendosi al margine del rumore propagandistico e della verità ufficiale, potremo compiere i passi che ci permettano di minimizzare gli effetti, in ogni caso negativi, di questa guerra. Come indipendentisti, socialisti e femministi, dobbiamo riflettere su quale sia il nostro ruolo per poter fronteggiare con efficacia le conseguenze della guerra. Per farlo è necessario risalire alle cause profonde del conflitto e attualizzare la tradizione antimperialista e pacifista del movimento socialista, oltre la dialettica della guerra fredda.
Una prospettiva di lungo periodo. La caduta dell’URSS
Le radici profonde del conflitto sono da cercare nella caduta dell’URSS. La disintegrazione dell’URSS, accentuata dall’azione politica ed economica dell’Occidente, aprì la strada al saccheggio della ricchezza sociale e all’instaurazione di governi corrotti legati all’oligarchia o all’apparato politico-militare. Davanti alla ritirata unilaterale dell’URSS dall’est europeo, l’Occidente non rispose con la smilitarizzazione del continente.
La cornice istituzionale di sicurezza e cooperazione europea proposta da Gorbaciov (la casa comune europea) venne energicamente respinta dagli USA, con la collaborazione del governo tedesco. Questa cornice istituzionale avrebbe potuto supporre la ritirata nord-americana dal continente, la neutralità di gran parte dei paesi europei e una direzione differente del processo d’integrazione europeo. L’opzione dell’Occidente fu invece estendere le proprie strutture politiche e militari verso l’est europeo.
Malgrado le promesse verbali riguardo la non espansione della NATO a est, i paesi occidentali approfittarono di ogni scenario di conflitto e di debolezza per avanzare le proprie posizioni. È in questo quadro di mancato rispetto dei patti che l’attuale Russia ha trovato il pretesto per non rispettare a sua volta il Memorandum di Budapest del 1994, con il quale l’Ucraina rinunciava al suo arsenale nucleare in cambio della garanzia della propria sovranità.
I conflitti in Ucraina
Evidentemente non possiamo analizzare i conflitti interni che hanno interessato diversi paesi dell’est europeo leggendoli semplicemente come conflitti artificiosamente provocati dall’intervento straniero. Ma non possiamo neppure analizzarli a partire da uno schema semplicistico di lotta tra democrazia e tirannia. Potremmo parlare di conflitti interni in cui l'ingerenza occidentale è stata intensa e ha fatto da detonatore.
Sia la Rivoluzione Arancione del 2004 che la insurrezione dell’Euromaidan del 2014 sono l’espressione di conflitti interni. Una disputa per il potere statale tra oligarchie, una disputa tra narrazioni nazionali differenti, una disputa tra interessi territoriali differenti. Ma in questo conflitto interno, l’ingerenza dell’Occidente è stata sfacciata e pubblica. Il dato rilevante non era la mancanza di alti standard democratici – la democrazia ucraina non era molto lontana da quella polacca o da quella ungherese – bensì il fatto che i governi ucraini, tanto nel 2003 come nel 2014, non si piegavano agli interessi dell’Occidente.
Malgrado l’abitudine a ridurre le spiegazioni del conflitto ucraino allo scontro tra russofoni e ucraini, le basi del conflitto risiedono soprattutto nella struttura economica. Da un lato la parte occidentale del paese ha una struttura agricola e industrie leggere, ed è molto legata economicamente ai paesi dell’est europeo; dall’altro la parte orientale è invece caratterizzata dall’industria pesante e da una economia molto più legata alla Russia. Contemporaneamente bisogna dire che l’economia ucraina non riuscì a risollevarsi come quella russa nel decennio successivo alla caduta dell’URSS.
L’Ucraina, che era stata la regione dell’URSS con la più alta concentrazione di industrie tecnologiche e di alto valore aggiunto, era stata anche quella che aveva patito con più durezza la riconversione dell’economia al capitalismo. La mancanza di risorse naturali importanti, a differenza della Russia, gli aveva impedito di contrastare minimamente lo smantellamento delle industrie. Questa situazione, aggravata dagli effetti della crisi capitalistica del 2008, favorì la rinascita di un nazionalismo antisovietico che storicamente era stato uno dei volti del nazionalismo ucraino.
Questa ideologia penetrò nelle istituzioni dello stato ucraino e, al di là dei suoi fluttuanti risultati elettorali, mise in allarme una parte della società. Fu così che si convertì in un nuovo vettore di conflitto interno.
Tra il 2013 e il 2014, il colpo di stato dell’Euromaidan ebbe come causa diretta la richiesta della destra nazionalista antisovietica di ratificare l’accordo di associazione dell’Ucraina alla UE. L’UE aveva concepito il trattato praticamente come un’azione di guerra economica contro la Russia. Il trattato prevedeva l’esclusività delle relazioni commerciali ucraine con l’UE e pertanto la perdita dell’Ucraina come mercato per i prodotti russi. Ma non si trattava solo di questo, il trattato imponeva anche la distruzione del tessuto economico del Donbass e delle altre regioni orientali. Allo stesso tempo l’accordo apriva informalmente la porta alla futura integrazione nella NATO.
Il governo di Janukovich, con una base elettorale e degli interessi economici molto legati all’est ucraino, rifiutò di firmare l’accordo con la UE. Questo fu il pretesto per la destra neoliberale e il nazionalismo antisovietico ucraino, tanto quello conservatore come quello della ultradestra, per organizzare l’Euromaidan e prendere il potere. Da qui viene l’esplosione della violenza e della repressione della sinistra ucraina e, in ultima analisi, la guerra in Donbass. Una guerra che provocò 11.000 morti fino agli accordi di pace di Minsk, più i 3.000 morti causati dalla ripetuta inosservanza ucraina del cessate il fuoco, e che fu teatro di buona parte delle trame dell’ultradestra, rafforzatasi durante l’Euromaidan.
La rinascita della Russia
L’odierno stato russo si è convertito in una potenza mondiale a partire dalla fine degli anni ’90 e dall’inizio del XXI secolo. Subito dopo la caduta dell’URSS e durante gli anni ’90, lo stato russo è diretto da un governo posto sotto la tutela degli USA che smantella la struttura dell’assistenza sociale sovietica e sostiene il capitalismo selvaggio sotto la forte influenza delle nuove mafie imprenditoriali.
Questo governo si concentra sulla politica interna e cessa di essere rilevante in politica estera. Il governo di Putin e l’attuale apparato statale russo sono figli della Russia di Yeltsin. La Russia democratica e sociale venne schiacciata con il fallito assalto al parlamento dell’ottobre del 1993 e sconfitta alle elezioni presidenziali del 1996, durante le quali i paesi occidentali intervennero sfacciatamente per favorire la vittoria di Yeltsin contro il candidato comunista.
All’inizio del nuovo secolo la Russia si riprende economicamente con l’istituzionalizzazione del capitalismo degli oligarchi. Questa crescita economica portò necessariamente a una maggiore influenza sullo scenario internazionale. Il capitalismo tende ovunque all’imperialismo. Il ritorno della Russia sullo scenario delle grandi potenze venne accompagnato dalla retorica politica dell’orgoglio nazionale davanti all’egemonia “occidentale”: si faceva una rilettura dell’eredità sovietica al servizio del nazionalismo russo, però legata ai concetti sovietici (solidarietà, antifascismo, autedeterminazione, antinperialismo) che ancora godevano di un ampio consenso popolare.
Questa rinascita russa si sviluppò contemporaneamente all’agenda militare, decisa dagli USA e dalla NATO, che portò all’aggressione della Jugoslavia nel 1999, alla guerra in Afghanistan e in Iraq. Come denunciò Putin al vertice di Minsk del 2008, la Russia non era disposta a tollerare la unilateralità nord-americana.
Il conflitto in Libia del 2011 è l’ultimo dei grandi conflitti intenzionali in cui lo stato russo perdeva un alleato in seguito alla scelta di non intervenire militarmente. Più tardi la guerra in Siria segnò una linea di confine nella politica estera e militare russa e dimostrò che lo stato russo aveva una grande capacità di dissuasione e di intervento militare nei conflitti internazionali.
Lo stato russo è ormai un attore di prim’ordine nella nuova corsa agli armamenti e negli interventi militari nei conflitti internazionali. Perciò la sua logica si specchia in quella della NATO. L’azione in Ucraina, si riveli o no un errore strategico letale per Putin, si inserisce in questa logica di difesa del proprio spazio, una logica promossa dall’Occidente.
Le decine di guerre promosse dagli USA e dall’Occidente negli ultimi decenni non convertono l’azione russa in Ucraina in un’azione legittima, ma senza queste guerre non si spiega la politica estera russa. La dottrina delle sfere d’influenza è la scusa delle politiche imperialiste. La dottrina secondo la quale ogni territorio non occupato da una potenza sarà occupato da un’altra, serve per giustificare davanti alla stessa popolazione le ingerenze in altri paesi e la corsa al riarmo che, prima o poi, finisce per provocare la guerra.
La guerra e i suoi responsabili
Chi è responsabile della guerra? Se calibriamo la messa a fuoco sull’aggressione militare russa, ovviamente il responsabile è il governo russo. Però se mettiamo a fuoco le cause della guerra, non solo il numero dei responsabili cresce, ma lo schieramento al quale appartengono i Països Catalans ne è in buona parte responsabile. In cosa si basa la responsabilità occidentale nella guerra d’Ucraina? In questo documento abbiamo parlato dei fatti concreti che hanno acuito il conflitto negli ultimi 30 anni.
Dalla propria posizione preminente, l’Occidente ha avuto la possibilità di costruire uno scenario di neutralità, sicurezza e cooperazione. Praticamente in ogni situazione ha avuto libertà di decisione, senza che i condizionamenti esterni avessero la possibilità di complicare l’applicazione di questo tipo di politica. Ma ha optato per uno schema nel quale la Russia è sempre stata il nemico, e bisognava strappargli quanto più spazio e potere fosse possibile mentre permaneva la sua debolezza.
Questo schema è stato applicato in Jugoslavia e nel Medio Oriente. La guerra in Georgia del 2008 non servì per rettificarlo e solo cinque anni più tardi si metteva l’Ucraina tra l’incudine e il martello con l’accordo d’associazione. Bisognerà chiarire le promesse e i consigli relativi sia al mancato rispetto degli accordi di Minsk che alla crescita della tensione nelle settimane precedenti alla guerra.
E come bisogna trattare la responsabilità russa nella guerra? Le responsabilità della Russia nella guerra attuale sono evidenti e le abbiamo indicate nelle pagine di questo documento. Da giorni la stampa accusa chi ha una posizione contro la NATO di negare queste responsabilità.
Quello che propongono gli opinionisti schierati con la UE è che l’unico messaggio sia una condanna unanime ed esclusiva della Russia. Adeguarsi significherebbe nascondere e scusare le responsabilità dell’Occidente e perpetuare le cause del conflitto così come il rafforzamento del governo russo davanti alla propria popolazione. Come in qualsiasi altro paese del mondo, anche in Russia è auspicabile la sostituzione di un governo capitalista con uno che sia al servizio degli interessi popolari.
Però bisogna essere consapevoli che la sostituzione di Putin con un altro governo ugualmente repressivo, corrotto e capitalista, però più debole, è una soluzione che servirebbe solo all’Occidente per continuare a sfruttare la debolezza russa, e non servirebbe alla pace.
Bisogna essere altrettanto consapevoli che la sostituzione di Putin con un governo popolare, che certamente porterebbe dei grandi benefici alle classi popolari russe, non porrebbe automaticamente le basi per la risoluzione del conflitto, dato che la minaccia della NATO obbligherebbe qualsiasi governo russo alla disputa delle zone d’influenza.
Una soluzione duratura deve includere la neutralità e la smilitarizzazione dell’Europa orientale e questa soluzione può scaturire solo da una iniziativa occidentale.
Le conseguenze della guerra. La classe lavoratrice è il soggetto perdente
Sono senza dubbio la classe lavoratrice ucraina in primo luogo e la classe lavoratrice russa in secondo luogo che stanno vivendo e soffrendo gli effetti mortali della guerra e che ne vivranno più intensamente anche le conseguenze socioeconomiche, sicuramente durature e non uniformi nel tempo.
Così l’economia di guerra, basata sul destinare ogni sforzo economico al sostegno all’impresa bellica, all’approvvigionamento di armi e di effettivi e nella ristrutturazione produttiva, comporterà prevedibilmente un peggioramento generalizzato delle condizioni materiali dei lavoratori e una regressione dei loro diritti.
Gli effetti socioeconomici della guerra nei Països Catalans sono già evidenti nell’aumento del prezzo della luce, del gas e della benzina; si comincia a notare un approvvigionamento insoddisfacente di alcuni prodotti come la farina, con la minaccia che la scarsità interessi anche l’olio di girasole.
L’aumento del prezzo della benzina e dell’elettricità avrà un forte impatto sull’aumento generale dei prezzi, dato che se aumenta il costo del trasporto delle merci, aumenta anche il loro prezzo finale. Non possiamo non notare l’aumento dell’indice del costo della vita. Nonostante si possa affermare in generale che gli effetti socioeconomici delle guerre sono lenti, la rottura degli accordi sulle forniture dei beni di prima necessità sta già causando delle conseguenze dirette.
A questi effetti a breve termine dobbiamo sommarne altri che derivano dall’inflazione, l’impatto sul PIL, il panico per un’inflazione senza crescita economica, la possibile crisi dell’euro e altri vicoli ciechi del sistema economico capitalista che si ripercuoteranno sui salari, sui servizi pubblici e sulle pensioni.
Tutto ciò in un contesto nel quale i bilanci pubblici saranno prevedibilmente caratterizzati dall’aumento della spesa militare e diretti a sovvenzionare l’aumento del prezzo dell’energia. È praticamente certo che questa situazione di emergenza energetica avrà un impatto negativo sulla lotta contro il cambiamento climatico.
Dopo aver propagandato che “non possiamo dipendere dal gas russo”, il passo successivo consiste nel fare della politica energetica una politica all’insegna dell’emergenza, schivare qualsiasi dibattito sociale e sacrificare aspetti centrali come la questione ecologica o gli oligopoli a beneficio del bene superiore della difesa nazionale.
Non si può ignorare che tutte le risorse pubbliche riorientate alla spesa militare, alla sovvenzione dell’energia e a sostegno delle decisioni dell’UE, sono risorse che non andranno più a palliare gli effetti dell’impoverimento e della mancanza di diritti accelerate dalla Covid-19.
Effetti che hanno spostato le donne della classe lavoratrice dalla prima linea nella lotta contro la pandemia alla prima linea della precarietà, della disoccupazione, del peggioramento delle condizioni di lavoro delle professioni femminili pregiudicate dalla pandemia, della crescita della distanza tra salario femminile e maschile, dell’aumento del costo della vita accompagnato al peggioramento delle condizioni di lavoro.
Inoltre la guerra ha riportato all’ordine del giorno lo sfruttamento riproduttivo. Così l’Ucraina, dove la maternità surrogata viene regolata e si è convertita in un affare in ascesa, smetterà di riprodurre manodopera da vendere sul mercato.
Il dibattito sulla regolarizzazione di questa pratica nei Països Catalans è in mano a coloro i quali rivendicano il diritto di decidere sul corpo delle donne, di coloro i quali ci considerano come uno strumento di produzione e vogliono arrogarsi il diritto di decidere quando, come e in quali condizioni si produce la forza lavoro.
È infine prevedibile che nelle prossime settimane cominceremo ad avere informazioni sugli stupri di guerra e l’aumento dello sfruttamento sessuale, così come è accaduto in tutte le guerre precedenti.
Un’offensiva autoritaria e militarista
Lo stato e i settori conservatori stanno approfittando dell’occasione della guerra per rafforzarsi ideologicamente davanti alla popolazione. La retorica della lotta della libertà contro la tirannia, così come l’inaugurazione della campagna anti-russa, ci riportano ai momenti più bui del franchismo. Il governo di Putin e lo stato russo hanno fatto affari e firmato accordi con i grandi oligarchi spagnoli e con tutti i governi di turno.
Il finanziamento dell’estrema destra spagnola proviene in parte dalla fortuna di alcuni oligarchi russi. Ma tutto ciò viene nascosto da una campagna che pretende accusare di connivenza con Putin qualsiasi movimento politico o sociale antagonista.
Lo Stato ha riciclato senza alcun sforzo innovativo il discorso anticomunista – nonostante né Putin né lo stato russo siano comunisti – e tutto fa pensare che nel medio periodo confidi di poter espellere dalla sfera pubblica qualsiasi discorso critico. All’interno di questa strategia, uno degli obbiettivi principali dello stato è riuscire finalmente a screditare su scala europea il movimento indipendentista catalano, presentandolo come una pedina del Cremlino.
La proibizione dei mezzi di comunicazione e la censura diretta esercitata dai grandi giganti d’internet segnano una nuova dimensione nel controllo sociale e dell’informazione nei paesi capitalisti. Questa proibizione non ha come obbiettivo eliminare la propaganda del governo di Putin ma indurre forzosamente l’autocensura dei giornalisti occidentali, timorosi di essere etichettati come persone vincolate al regime russo.
Questa offensiva ideologica mira anche a indebolire le posizioni antimperialiste e pacifiste. Finora una massa sociale considerevole nell’Europa occidentale e specialmente nei Països Catalans, affermava con veemenza la necessità di rispettare la legalità internazionale e il principio più generale della pace.
La guerra, assieme all’agenda ideologica dell’estrema destra, può aizzare il militarismo fino ad avviare una serie di vere e proprie guerre culturali da tradurre poi in politiche attive. Con l’idea che la legalità internazionale in fondo non serva a niente e che sia necessario adeguarsi alla “realtà” della legge del più forte. Secondo questa logica, per essere il più forte è necessario procedere a una militarizzazione della società.
Inoltre non bisogna sottovalutare la minaccia rappresentata dalla presenza di volontari dell’ultradestra spagnola nelle milizie ucraine, liberi di accedere alle armi senza alcun controllo. Per l’estrema destra europea, l’Ucraina può rappresentare quello che la Siria è stata per il jiadismo continentale.
Il doppio standard europeo nella politica migratoria dell’accoglienza sta legittimando come “naturali” le posizioni razziste. Si accetta così come normale l’idea che ci siano persone che meritano un grado di solidarietà e sostegno maggiore di altre a seconda del colore della pelle o della religione. In questo modo l’estrema destra ottiene di nuovo una vittoria.
Questa offensiva autoritaria e militarista sarà inoltre usata per soffocare le più recenti conquiste e i risultati ottenuti sul terreno dell’egemonia politica dal movimento femminista, centrando così un altro obbiettivo dell’agenda dell’estrema destra.
Alcune coordinate di base per l’azione politica
Una guerra tra contrapposti interessi imperialisti è una guerra contro il popolo. Nel breve periodo, qualsiasi soluzione minimamente stabile e degna, capace di risparmiare morti e sofferenze, è una buona soluzione. Questa soluzione deve includere degli accordi di pace che garantiscano sia la sovranità che la neutralità dell’Ucraina, il diritto all’autodeterminazione del Donbass e della Crimea e il ritorno di tutta la popolazione fuoriuscita a partire dal 2014.
Nel lungo periodo, solo il socialismo può costruire le basi di una pace duratura nel mondo. Solo a partire dalla eguaglianza e dal progresso sociale, dal rispetto del diritto all’autodeterminazione e dalla smilitarizzazione delle relazioni tra gli stati, su un piano di eguaglianza, è possibile pensare uno scenario di pace.
Tutto il contrario di quello che rappresentano le relazioni stabilite dalla NATO e dalla UE. Sul piano interno, è necessario cominciare a lavorare per articolare una ampia alleanza sociale che sia in grado di fronteggiare la narrazione bellicista dello stato e che lavori per stoppare l’agenda politica, economica, sociale e militare che lo stato, la UE e la NATO cercano di imporre con la scusa della guerra e dello scenario di tensione permanente che ne deriva.
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