Il rapporto ISTAT sui conti delle pubbliche amministrazioni, sui redditi e i risparmi delle famiglie e sui profitti delle imprese nell’ultimo trimestre del 2022 è una rappresentazione chiara di come funziona il modello economico dominante: più i padroni si arricchiscono più i lavoratori si impoveriscono. È la fotografia della contrapposizione insanabile tra capitale e lavoro.
Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è leggermente aumentato, seppur di un misero 0,8%, rispetto al trimestre precedente, così come i consumi finali sono cresciuti del 3%. Nicola Calandrini, senatore di Fratelli d’Italia, si è subito affrettato a indicare questi dati come una “vittoria” del governo, che saranno migliorati dalla riforma fiscale.
In generale la pressione fiscale è diminuita di un punto percentuale rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, contro la retorica che vuole le tasse sempre più alte. Ma i numeri che Calandrini si è dimenticato di citare sono quelli che ci informano dell’origine dell’aumento dei consumi.
La propensione al risparmio è al 5,3%, scendendo di due punti percentuali rispetto al terzo trimestre del 2022. Significa che la quota di reddito destinata al risparmio – ricordando che le statistiche creano una media tra situazioni molto diverse, perché molti il reddito neanche ce l’hanno – viene sacrificata per far fronte alle necessità quotidiane.
E infatti il potere d’acquisto delle famiglie è crollato nell’arco di quei tre mesi del 3,7%, mangiato dall’inflazione che le istituzioni – europee e nazionali – non vogliono contenere e lasciano ricadere per intero sulle tasche di lavoratori, pensionati, disoccupati.
Incrociando questo rapporto con altri dati ISTAT osserviamo addirittura la contrazione delle vendite di beni alimentari, sia in termini di valore sia in volume. Un lieve aumento del valore dei beni non alimentari venduti, ma una flessione più netta del loro volume ci porta a riassumere la dinamica come segue: spendiamo di più per acquistare meno, specialmente sul cibo, e lo facciamo dando fondo ai nostri risparmi per mantenere il nostro tenore di vita.
Ma non tutti piangono davanti a questa problematica. La quota di profitto delle società non finanziarie si è attestata al 44,8%, in crescita dell’1,9% sul precedente trimestre e addirittura del 3% sugli ultimi tre mesi del 2021. I dati Eurostat confermano che la quota di profitto ha toccato il punto più alto della serie storica, al 42%.
Gli imprenditori, insomma, non hanno mai guadagnato così tanto...
Come se non bastasse, non è che le imprese stiano usando i profitti per il rilancio dell’economia. Gli investimenti fissi lordi sono certo leggermente aumentati, dell’1,7%, ma il tasso di investimento, ossia il numero che rappresenta gli investimenti in percentuale del valore aggiunto lordo, è diminuito dello 0,4%.
Per dirla in parole semplici, i profitti aumentano e il surplus è incamerato per tutelarsi, ma non investito date le condizioni economiche che non promettono di avere un ritorno di quel che viene speso. Del resto, è così che funziona il mercato, altro che “sono le imprese che creano lavoro”: è la domanda [ossia i consumi] ad essere asfittica, e si porta dietro tutti gli altri indicatori.
Dovrebbe allora essere lo Stato ad assumersi un ruolo di indirizzo e volano economico. Il mantra quotidiano rimane invece quello per cui il debito pubblico (messo dove serve, non nei sussidi per le imprese che non funzionano) è “male”, e infatti viene considerato positivo il miglioramento di mezzo punto percentuale del saldo primario delle amministrazioni pubbliche rispetto allo stesso trimestre del 2021.
Si taglia ancora, insomma, su stipendi e servizi, in un ciclo infernale di austerità e impoverimento generale.
In pratica, ci troviamo di fronte all’ennesima dichiarazione esplicita del fallimento del “privato”, ovvero della proprietà privata e dell’affidamento ad essa delle scelte di allocazione degli investimenti. Bisognerebbe tornare invece a parlare seriamente almeno di programmazione economica, e di centralità da dare al “pubblico”, per tentare di uscire da questa crisi.
Del resto, non è un bolscevico, ma il presidente dell’Unione Nazionale dei Consumatori – Massimiliano Donà – a dire, guardando altri dati sui consumi alimentari, che “gli italiani non hanno mai stretto così tanto la cinghia e sono a dieta forzata”.
A suo avviso, serve pensare anche a provvedimenti di carattere strutturale come la scala mobile.
Aggiungiamoci anche il salario minimo ad almeno 10 euro l’ora, la difesa del reddito di cittadinanza e la reinternalizzazione e stabilizzazione dei lavoratori dei servizi pubblici e abbiamo i primi elementi programmatici di una rappresentanza politica alternativa.
Un programma popolare, l’unico che possa salvarci dalla barbarie capitalista.
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