La storia moderna è quel periodo che va dalla fine del Medioevo, sino alla rivoluzione industriale.
Quel periodo che va dalla “scoperta” dell’America (che sarebbe ora di catalogare sotto il più appropriato titolo di “colonizzazione del continente americano”) alla presa della Bastiglia.
Insomma, dal 1492 al 1789, trecento anni che, dal punto di vista sociale, politico e geopolitico hanno disegnato i contorni del mondo, che poi è stato modellato dalla storia contemporanea.
Sappiamo che la storia dell’umanità non è una linea continua, ma un insieme di segmenti, che non sempre coincidono col disegno che si vorrebbe fosse realizzato.
La fine della globalizzazione unica – provocata dalla paralisi economica e finanziaria prodotta dalla pandemia del Covid-19 – accanto al panico per la perdita di dominio che gli establishment stanno accusando come trauma, danno vita alla volontà di scontro, affinché l’Occidente torni a prevalere, sotto l’egida della potenza militare USA.
Come quando si scontravano Francia e Spagna, Inghilterra e Francia, Austria e Impero Ottomano, oggi la lotta sembra tornare per il controllo territoriale e la supremazia sui mari, più che sulla rilevanza delle quote di mercato.
Perché è forte la sensazione di essere tornati alle Signorie, all’assolutismo, alle guerre di conquista, magari con l’impero di mercenari?
Una possibile spiegazione la fornisce un piccolo e prezioso libro che contiene l’analisi elaborata da Jodi Dean, docente di Teoria politica a Geneva, nello stato di New York. Scrive la dottoressa Dean in “Capitalismo o neofeudalesimo?” (Mimnesis, 2024):
“Ho caratterizzato il neofeudalesimo ricorrendo a quattro elementi: la parcellizzazione della sovranità, nuovi padroni e servi; provincializzazione e ansia apocalittica”. (Cfr. pag. 90).
Per essere più chiari: “Oggi l’accumulazione non si realizza tanto attraverso la produzione di merci quanto attraverso l’affitto e la predazione: prendendo e non producendo [...]
Il ‘signor un sacco di soldi’ di cui parlava Marx appare meno come una rappresentazione del capitalista e più come quella di un proprietario terriero o un finanziere, come quella di qualcuno che ottiene la sua quota”.
In “Il capitale è morto, il peggio deve ancora venire” (Produzioni Nero, 2021), MacKenzie Mark, scrittrice e studiosa di teoria del media, scrive:
“Capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza, postcapitalismo, capitalismo green: sono moltissime le definizioni attraverso le quali si è provato a definire o ispirare l’attuale governo economico del mondo, ma nessuna è stata in grado di restituire davvero la contemporaneità in cui viviamo”.
Sempre Jodi Dean (ibidem) scrive: “E che dire del fatto che nel XXI secolo la gran parte dei posti di lavoro si trova nel settore dei servizi, nel servaggio a larga scala in tutto il mondo?
Nei paesi ad alto reddito, il 70-80% dell’occupazione è nei servizi, e anche la maggior parte dei lavoratori in Iran, in Nigeria, in Turchia, nelle Filippine, in Messico, in Brasile e in Sudafrica è impiegato in questo settore [...]
Sempre più persone, costrette a vendere la propria forza lavoro nella forma di servizi desinati a chi è in cerca di consegne, di autisti, addetti alle pulizie, trainer, assistenti sanitari a domicilio, babysitter, di guardie, coach e così via. [...]
Con i progressi nella produzione che sembrano giunti a un vicolo cieco, il capitale è oggi tesaurizzato e brandito come un’arma di distruzione: i suoi detentori sono i nuovi signori, il resto di noi dipendenti, invece, è composta da servi e schiavi proletarizzati”. (Cfr. pagg. 43 e 44).
Questi ragionamenti, queste analisi hanno bisogno di venir meglio approfonditi, arricchiti, meglio articolati.
Tuttavia, è qui che possiamo trovare le ragioni del nuovo protagonismo della guerra, nei vari scenari in cui si è manifestata.
Le teorie geopolitiche sono poco convincenti se non si analizza il nuovo corso del capitalismo globale e quindi le nuove ragioni delle strategie di esercizio della potenza militare come strumento di dominio politico e sociale.
Vale per l’Ucraina, per la Palestina, per l’Iran, per il braccio di ferro militare nel contesto indo-pacifico tra USA e Cina.
Tanto che è difficile pensare che una nuova versione del pacifismo, che fu strumento di lotta politica durante la “Guerra Fredda”, possa oggi essere ancora efficace a contrastate il nuovo imperialismo, il nuovo colonialismo, il nuovo corso del capitalismo.
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