1. I mutamenti del linguaggio sono indice sicuro di cambiamenti concettuali e, se riguardano cose storico-sociali, spesso sono il segno delle loro trasformazioni, come è il caso di due espressioni – ‘conflitto geoeconomico’ e ‘momento hamiltoniano’– sempre più in uso nei discorsi delle classi politiche e imprenditoriali al potere, soprattutto dell’Unione Europea (UE).
Per cercare di decifrare il significato di ‘conflitto geoeconomico’, e a quali cose si riferisce, conviene partire dall’antichissimo aforisma, che dovrebbe risalire a mia conoscenza a Cicerone: ‘il denaro è il nerbo della guerra’. Questo aforisma fu aspramente criticato in epoche diverse in nome del civismo repubblicano da personaggi altrettanto diversi del rango di Machiavelli e Rousseau, per i quali ‘gli uomini sono il nerbo della guerra’, tuttavia esso ha rispecchiato le vicende pressoché millenarie di principi, re, imperatori che hanno utilizzato il denaro per dar corso a guerre al fine di rendere sicuro ed espandere il proprio potere.
L’avvento del capitalismo ha cambiato la natura di quel rapporto emancipando il denaro dal ruolo servente e stabilendo una loro reciproca funzionalità: lo Stato assolutista, e poi in seguito quello costituzionale, ha utilizzato il ‘denaro’ per affermare con le guerre la sua egemonia ed espansione territoriali; a sua volta, il ‘denaro’ ha usato lo Stato per accrescersi continuamente.
Esemplificativa di questa seconda fase, quella dell’avvento del capitalismo, è la vicenda della British East India Company, che Edmund Burke definì ‘uno Stato in guisa di mercante’, perché essa, grazie a una concessione regia, fu protagonista della conquista dell’India con un suo esercito privato; essa potette così sfruttare le risorse naturali e le popolazioni indiane oltre a stabilire il monopolio dei commerci da e per quell’immenso territorio.
Di questo si appropriò il Regno Unito solo nel 1860 per ampliare il suo impero, causando la fine della British East India Company la cui vicenda, in ogni caso, rimane un episodio, per altro non isolato, della stretta ‘relazione tra potere commerciale e potere imperiale’ (v. W. Darlrymple, Anarchia – L’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie orientali, Milano 2022, pp. 45 e 493).
Oggi, nell’ambito del capitalismo globale, assistiamo a un’inversione dei termini di quel vecchio aforisma, che potrebbe così risuonare: ‘la guerra è il nerbo del denaro’. Lo è in un primo e più tradizionale senso: la spesa per armamenti è la via più sicura per aumentare la domanda effettiva, e poiché comporta distruzione e autodistruzione la può alimentare in modo permanente e crescente – è la versione bellicista dello ‘scavar buche e riempierle’ che Keynes e Kahn indicavano paradossalmente per espandere occupazione e reddito.
Quanti profitti le industrie belliche stiano oggi realizzando lo si può ben comprendere dalle statistiche del SIPRI relative alle spese militari del 2023, che fanno segnare un record raggiungendo la cifra complessiva mondiale di 2443 miliardi di dollari, con un aumento del 6,8 % rispetto al 2022.
Con gli USA, che con i suoi 916 miliardi di dollari guida la classifica, seguita dalla Cina con 296 e la Russia con 109 miliardi.
I Paesi UE membri della NATO hanno speso complessivamente 375 miliardi di dollari, e l’Italia 35, 5, per potenziare le loro capacità militari e per sostenere l’Ucraina contro l’aggressione della Russia di Putin (fonte SIPRI).
In questo mondo dominato dal capitalismo globale, il nuovo aforisma ‘la guerra è il nerbo del denaro’ ha un altro e più pregnante significato, che si può cogliere nel Davos Report 2023 dove si evidenzia come la ‘guerra economica sia divenuta la norma, con crescenti scontri tra potenze globali e l’intervento statale nell’economia’ – l’espressione ‘guerra economica’ non è una metafora per ‘aspra competizione’, bensì indica l’uso della guerra per vincere la competizione economica.
La competizione economica si svolge, in questa fase storica, non più tra singoli Paesi ma tra blocchi di Paesi organizzati anche in alleanze politico-militari con lo scopo di creare e difendere i propri ‘spazi vitali’, in cui prelevare materie prime e impiantare le proprie ‘catene del valore’.
Le guerre e l’uso dello ‘strumento militare’ sono tornati protagonisti di questa lotta geoeconomica, i cui attori possono essere individuati nei Paesi del G7, forti militarmente della NATO e dell’AUKUS, e nella Cina e Russia. ‘Geoeconomia’ sta a indicare che con le guerre, o le minacce di guerre, si conquistano posizioni egemoniche nella nuova divisione internazionale delle produzioni e dei mercati, e dunque la sicurezza negli approvvigionamenti delle materie prime e dell’energia.
2. Si è visto dal Rapporto SIPRI che i Paesi dell’UE spendono in armamenti una cifra quasi tre volte di quella della Russia, ma devono ancora ricorrere all’ombrello protettivo della NATO e degli USA per garantire la propria difesa. È questo stato di minorità che l’UE intende superare con una strategia volta a coordinare le spese militari tra gli Stati membri e a varare regole per sostenere una produzione industriale in grado di rispondere alle pressanti e crescenti esigenze dello ‘strumento militare’.
L’UE si trova ad affrontare più crisi – sicurezza militare e negli approvvigionamenti delle materie prime ‘critiche’, transizioni energetica, ‘verde’ e digitale –, che richiedono un drastico mutamento nell’assetto istituzionale, oltre che nelle politiche economiche. Per coglierne la necessità basta leggere – tra i tanti discorsi e documenti – quanto ha affermato Charles Michel il 29 aprile per celebrare il ventesimo anno dell’allargamento dell’UE ai Paesi dell’Est: Il mondo si muove da un sistema con una singola superpotenza verso uno multipolare.
L’UE è uno dei tre maggiori blocchi mondiali’, e per rispondere alle sfide essa ha una strategia che ‘si chiama sovranità europea’, sostenuta da tre pilastri: i valori di libertà, un’economia competitiva, la difesa comune. Questo nuovo ‘paradigma’ politico ha bisogno di una forte ‘capacità industriale di difesa’. Per ottemperare ai requisiti di questo nuovo paradigma occorre che l’UE acquisisca nuove competenze sovrane aggiungendo, a quelle già vaste, la sicurezza militare e la fiscalità.
Naturalmente questi due ambiti – tra i più esclusivi della sovranità statale – sono strettamente interrelati, perché senza capacità fiscale centralizzata non si possono realizzare massicci investimenti per la difesa grazie all’emissione di debito comune. L’emissione di debito comune: qui entra in gioco, la seconda espressione da cui sono partito, il ‘momento hamiltoniano’.
Il suo significato emerge innanzitutto dall’Articolo VI della Costituzione USA, il cui capoverso afferma che tutti i debiti contratti dagli Stati sotto la Confederazione sono assunti dalla nuova Federazione, per questo il primo Segretario del Tesoro Alexander Hamilton emise debito comune per far fronte agli impegni assunti dai singoli Stati e alle esigenze della difesa comune (v. Papers on Public Credit, Commerce and Finance, Columbia University Press 1934, pp. 15 e 21).
Mario Draghi ha esplicitamente richiamato il ‘momento hamiltoniano’ nella sua Lecture Martin Feldstein (del luglio 2023), rilevando però che esso ebbe luogo con la Guerra di indipendenza, prima dunque dei provvedimenti di Hamilton, e che in Canada e in Germania ‘vennero create le prime imposte federali dirette – a parte i dazi doganali – per generare nuove entrate per finanziare la Prima guerra mondiale’. Insomma, suggerisce Draghi, occorre che l’UE approfitti delle attuali situazioni di guerra per centralizzare le capacità fiscali e per espandere la sua sovranità, esercitata da élite politiche, che, in stretta relazione con quelle imprenditoriale, hanno per scopi la gestione del mercato unico, la promozione della competitività delle merci e la sicurezza militare.
L’UE per divenire una potenza geoeconomica deve attraversare il ‘momento hamiltoniano’ accentrando, oltre al controllo delle politiche di bilancio degli Stati membri con il nuovo Patto di Stabilità, il potere fiscale in modo da poter emettere debito comune per gli ingenti investimenti necessari per la difesa militare e per la duplice transizione.
La strategia dell’oligarchia UE è di rafforzare la già stretta cooperazione tra potere economico e potere politico, affinché l’UE divenga un attore di primo piano nella scena geoeconomica – ‘terzo blocco’ in grado di competere con USA e Cina nei mercati mondiali.
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