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16/08/2024

La tv è stanca

Il modello di sviluppo industriale del calcio è in profonda crisi: la difficoltà nel piazzare i diritti tv per le partite del massimo campionato francese, è la prima avvisaglia di un complessivo ridimensionamento degli investimenti dei maggiori broadcaster. Ma la crisi non riguarda soltanto la Francia: il rialzo continuo dei prezzi di abbonamento, la corsa allo sfruttamento intensivo del prodotto attraverso la proposta di una programmazione molto discutibile per contenuti e qualità, la fatica nel conservare il parco abbonati sono tutti segnali che per il business i margini di crescita si siano esauriti. Ce ne parla, con la solita lucidità, Pippo Russo.

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La prima notizia è che l’inizio della catastrofe è stato evitato in extremis. La seconda notizia è che quell’inizio di catastrofe è soltanto rinviato. Succede tutto a Parigi, dove tra il mese più pazzo di sempre nella storia elettorale nazionale e l’avvicinarsi della trentatreesima olimpiade estiva ha trovato posto la risoluzione di uno psicodramma nazionale: la cessione dei diritti televisivi per la trasmissione delle partite di Ligue 1. L’inizio della nuova stagione, fissato per il 18 agosto, è stato accompagnato da un’angoscia di tipo nuovo, e per questo ancor più destabilizzante: l’angoscia che il calcio nazionale diventasse uno spettacolo invisibile. Il vecchio contratto è scaduto a giugno e in genere ciò avviene quando un nuovo contratto per il periodo successivo è stato già firmato. E invece la Ligue 1 si è ritrovata scoperta. Le settimane passavano, l’inizio del campionato si avvicinava e il rischio che il calcio transalpino sprofondasse in un ambiente mediale da anni Ottanta si faceva sempre più probabile. Né era soltanto una questione di copertura televisiva. Perché il punto massimamente critico stava (e rimane) nel fatto che i denari delle tv sono, e di gran lunga, la principale voce di ricavo per le società calcistiche del massimo livello, in Francia come altrove. Dunque, non firmare un contratto per la cessione dei diritti televisivi sarebbe stato un disastro per le casse di tutti i club.

Il problema nasceva da una richiesta della Ligue 1 che le emittenti televisive ritenevano eccessiva. I club speravano di spuntare 700 milioni di euro a stagione per il periodo 2024-29. E le emittenti rigettavano questa richiesta non tanto perché volessero tirare sul prezzo, ma perché, semplicemente, la Ligue 1 non vale quei soldi. Delle cosiddette Big 5 (le cinque principali leghe europee, gruppo di cui fanno parte, oltre al torneo francese, la Premier League inglese, la Liga spagnola, la Bundesliga tedesca e la nostra Serie A) è quella di livello tecnico inferiore e dal richiamo mediatico più debole. E non è nemmeno questo l’aspetto più penalizzante. Il vero, gigantesco handicap della Ligue 1 è che è un non-campionato; nel senso che si sa già chi lo vincerà prima che venga dato il via. Da quando il Paris Saint Germain è passato sotto proprietà qatariota non c’è più stata partita per nessuno. Scontato il rodaggio iniziale, il PSG ha lasciato per strada soltanto due campionati, ma giusto perché l’ossessione di vincere la Champions League ha indotto distrazione rispetto al torneo domestico, che i parigini pretendevano di poter vincere anche viaggiando col pilota automatico. Ma una volta imparata la lezione, il PSG non ha più sbagliato colpi. Né regge più di tanto il paragone con la Bundesliga (dove però il Bayern Monaco ha appena mancato il colpo al termine della scorsa stagione, cedendo il passo al Bayer Leverskusen), perché il livello medio del campionato tedesco è nettamente superiore a quello del campionato francese, come testimoniato dagli esiti delle coppe europee. Tenuto conto di tutto ciò, la richiesta della lega professionistica francese era irricevibile. E infatti non è stata recepita dai broadcaster, che nel braccio di ferro hanno dato da subito l’impressione di non essere quelli pronti a cedere.

E così è stato. I club hanno dovuto accettare un’offerta nettamente al ribasso di quasi il 30%: 500 milioni di euro. Una somma che non dice nemmeno tutto sull’umiliazione che i club della massima serie francese hanno dovuto ingoiare pur di non sparire dagli schermi televisivi. E per capire il senso della cosa basta guardare chi e come ha messo a disposizione quella somma. A pagare sono stati infatti due broadcasters, che si sono divisi il pacchetto delle 9 partite a giornata. Uno dei due è Dazn, che nelle lunghe settimane dello scontro aveva mandato a dire chiaramente di poter fare a meno della Ligue 1 senza particolari remore. Per chiudere l’accordo, l’emittente che detiene anche i diritti della Serie A ha accettato di elevare l’offerta da 375 a 400 milioni di euro. Una mancetta da 25 milioni di euro che per i club del massimo campionato francese è stata quasi più umiliante della precedente intransigenza. Grazie a quei 25 milioni di euro supplementari, Dazn si è assicurata un pacchetto di 8 delle 9 partite per ogni turno di campionato. La nona partita di ogni turno è stata aggiudicata a beIN Sport, che in cambio ha accettato di versare 100 milioni di euro a stagione. Una somma che, parametrata a quanto versato da Dazn per ottenere 8 partite a giornata, è del tutto spropositata. Ma proprio qui sta l’ulteriore aspetto di umiliazione per la Ligue 1. Perché beIN è un’emittente di proprietà di Qatar Sports Investments, il fondo sovrano che controlla il Paris Saint Germain. E perché entrambi i soggetti (PSG e beIN) sono guidati da Nasser Al-Kehlaïfi, plenipotenziario dell’emirato per le questioni sportive. Di fatto, la proprietà del PSG ha concesso al resto della Ligue 1 un’elemosina da 100 milioni di euro. E a questo punto la situazione è grottesca, perché i parigini non si limitano ad ammazzare la competizione, ma ne tengono pure in piedi il simulacro foraggiando le altre 17 società del torneo. Che dunque possono anche detestare i parigini per il loro strapotere sportivo e economico, ma intanto devono baciarne umilmente la pantofola perché dal PSG ricevono il pane e pure le brioches.

Ogni lega è infelice a modo suo

Si dirà che il caso francese è troppo peculiare perché se ne possa ricavare indicazioni di carattere generale. Vero. Ma è altrettanto vero che anche dai casi peculiari è necessario trarre lezioni di portata generale. In tal senso, le indicazioni che provengono da questa vicenda vanno lette con proiezione su un piano più complessivo perché il caso francese potrebbe essere l’avanguardia dell’esaurimento di un modello di sviluppo industriale del calcio. Si tratta del modello che ha puntato forte sulla massimizzazione della risorsa televisiva. Ciò che è all’origine di tutti gli squilibri e le iniquità che, dall’inizio degli anni Novanta, hanno preso ad attraversare il calcio a tutti i suoi livelli, da quelli nazionali a quello globale. La dinamica è nota ma è bene riepilogarla, specie adesso che si ha possibilità di collocarla in una prospettiva di medio periodo e darle un minimo di storicità.

Con l’avvento dei canali digitali a pagamento si apre la possibilità di trasmettere in diretta e in esclusiva tutte le partite di calcio di una giornata di campionato. Ciò determina che il vero botteghino sia quello virtuale e che la principale fonte d’incasso per le società calcistiche giunga proprio da quel botteghino. Che di suo ha enormi possibilità di espansione. Le tv anticipano alle società calcistiche i proventi di quel botteghino e poi si incaricano di rivendere quel prodotto di cui sono non soltanto distributrici, ma anche e soprattutto produttrici. Ma da qui inizia la sperequazione, la dinamica che rende i grandi e grossi sempre più grandi e grossi, e i piccoli e fragili sempre più piccoli e fragili.

Questa dinamica si manifesta su piani diversi e con modalità intersezionale. A farne le spese per primi sono i campionati nazionali dalla seconda divisione in giù, soffocati dalla televisizzazione del rispettivo campionato di prima divisione (che drena pubblico sugli spalti) e dalla spalmatura del suo calendario. Ma la direzione di questo processo si espande oltre i confini nazionali, seguendo la medesima logica darwiniana. La principale coppa europea per club mette in ombra quelle di grado inferiore, e i suoi ranghi vengono riempiti da club dei campionati di più elevato ranking (che sono anche i campionati più ricchi, mentre i club dei campionati di ranking inferiore si ritrovano cacciati ai margini, fino a vedere come un miraggio la partecipazione alle fasi che contano).

Ma poi anche all’interno dei tornei del massimo livello, sia sul piano nazionale che su quello internazionale, ci sono club che diventano troppo più forti degli altri, e che oltre ad ammazzare la concorrenza nei loro tornei prendono a sognare tornei ulteriormente elitari come le superleghe. E per queste superleghe del calcio la principale risorsa è ancora una volta quella: i diritti televisivi. E così il cerchio si chiude, per circoscrivere una politica della dipendenza dalla risorsa televisiva che si è trasformata in un nodo scorsoio ormai soffocante. Con in più la peculiarità che, nonostante la piena consapevolezza di tale dipendenza, nulla si fa per porvi rimedio e anzi si cerca di rafforzarla. Nel senso che si alimenta l’illusione di un’infinita munificenza da parte degli imprenditori televisivi, di una loro disponibilità a iniettare illimitate risorse nel calcio. E confidando in ciò si spende già quello che si prevede di incassare senza che ve ne sia garanzia alcuna.

Rispetto a questo andazzo il caso francese ha lanciato un avviso forte: la tv è stanca. E questa stanchezza manifesta una misura diversa in ciascuna lega nazionale. In Francia la manifestazione è avvenuta in modo perentorio. Altrove, come in Italia, avviene in modi diversi: c’è la fatica nel conservare il parco abbonati, il rialzo continuo dei prezzi di abbonamento, la corsa allo sfruttamento intensivo del prodotto attraverso la proposta di una programmazione molto discutibile per contenuti e qualità, e infine la certezza che per il business i margini di crescita si siano esauriti. Anche qui una paura che incombe, ma con una modalità diversa rispetto a quanto succede in Francia. Per dire che in ogni Paese il calcio è infelice a modo suo.

Se ripensare significa ridimensionare

Si dirà che la conclamata crisi francese e la prossima crisi italiana siano comunque due casi nazionali, da prendere come tali senza avere la tentazione di ricavarne indicazioni generali. Una considerazione di comodo, forse l’ultima risorsa per chi prova a esorcizzare la crisi. Perché invece le due vicende convergono verso un indizio univoco. E quell’indizio dice che la tv comincia a ridimensionare l’investimento. Sta esaurendo i propri margini di crescita, come avviene nella storia naturale di ogni cosa. E nella storia naturale di ogni cosa non esistono cose che crescono in modo illimitato. Invece il mondo del calcio, a ogni latitudine, ha creduto proprio questo: che i denari delle tv fossero disponibili senza limiti. Ma c’era anche un altro peccato originale a sorreggere questa credenza d’inesauribile crescita: il fatto di sottrarla ad altri, di campare non soltanto al di sopra delle proprie possibilità, ma anche sulle spalle di altri che invece erano costretti a subire una dinamica dell’immiserimento. E quando si sta dalla parte giusta della catena dell’immiserimento (cioè, la parte di chi ne giova incrementando la propria ricchezza a scapito di chi impoverisce), ci si ritrova come in uno stato di alienazione positiva. Che è uno stato complicato da spiegare, e che per di più contiene in sé il destino di una successiva espulsione dall’enclave del privilegio verso il vasto territorio degli have nots. Perché anche dentro l’enclave qualcuno lavorerà ancora per essere più ricco fra i ricchi e più privilegiato fra i privilegiati. E quell’accrescimento di status non avverrà per acquisizione di risorse nuove, ma per ulteriore erosione delle risorse presenti.

Questo è stato il meccanismo innescato dall’avere assunto la risorsa televisiva come leva principale per la produzione di una ricchezza drogata. L’arricchimento smisurato di alcuni crea continue fratture alimentate dalla brama di ulteriore arricchimento. E poiché le risorse si concentrano ormai dentro l’enclave, sarà una corsa a razziarsele fra coloro che la popolano. Le conseguenze di questo meccanismo che finisce per divorare se stesso sono evidenti. In Europa i campionati nazionali sono stati suddivisi in fasce la cui gerarchia è dettata dalla forza economico-finanziaria, con ripercussioni sull’accesso alle coppe europee (a loro volta suddivise per fasce gerarchicamente squilibrate). Ma all’interno delle stesse competizioni privilegiate (campionati nazionali e coppa europea di fascia superiore) si scatena un’ulteriore corsa alla predazione delle risorse altrui, da parte dei soggetti che ritengono di essere l’élite dell’élite e per questo chiedono privilegio fra i privilegiati.

La conseguenza di tutto ciò ha una logica brutale. Dentro ogni lega nazionale i club di fascia superiore manifestano una voglia di Superlega molto più vasta di quanto le versioni ufficiali lascino credere. E ciò si ripercuote sul fascino di molte leghe, che del resto mostrano squilibri competitivi palesi. Della Ligue 1 si è detto. Ma le cose non vanno in modo granché diverso nelle altre leghe di prima fascia. In Italia si è assistito a una dittatura juventina durata 9 anni, cui sta facendo seguito un lento riequilibrio. In Bundesliga il Bayer Leverskusen ha interrotto una striscia di 11 campionati vinti dal Bayern Monaco (che a sua volta, dalla stagione 1998-99 alla 2022-23, ne ha vinti 19 su 25). In Spagna succede di tanto in tanto che l’Atlético Madrid rompa la diarchia Barcellona-Real Madrid. E anche nella fascinosa Premier League il Manchester City ha portato a casa 6 delle ultime 7 edizioni. Il pubblico televisivo si stanca, fa selezione fra le stesse leghe del massimo livello e ne privilegia alcune. Le tv e gli sponsor colgono i segnali e agiscono di conseguenza, spostando le risorse da una lega a un’altra. E così, d’incanto, alcuni ricchi si ritrovano a rischio impoverimento senza essere pronti a vivere questa condizione. La Ligue 1 è il primo vagone a essere stato sganciato. La Serie A sarà il prossimo. E chi rimarrà nella corsa dovrà guardare a una prospettiva di sopravvivenza anziché di espansione.

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