“Se fossimo in un mondo ideale dove tutto funziona perfettamente, dovrei dire che non sono tanto contento della notizia di un taglio del turn over. Ma non viviamo in un modo ideale e quindi ciascuno deve fare la sua parte e chi sta al governo deve comprendere cosa serve per tenere sotto controllo i conti dello stato”. Con queste parole Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione, ha preannunciato l’ennesimo boccone amaro da far inghiottire ai lavoratori pubblici con questa manovra di bilancio. L’ennesimo perché, con buona pace della propaganda governativa, arriva dopo una sequenza ininterrotta di interventi punitivi che rischia seriamente di gettare una pietra tombale su quel che resta del servizio pubblico.
Andiamo con ordine, cercando di far emergere la distanza siderale che esiste fra la narrativa del Governo e la realtà dei fatti.
Partiamo proprio con l’ultimo fronte dell’offensiva governativa. Le parole di Zangrillo alludono al blocco del turnover – cioè delle nuove assunzioni a seguito di personale in uscita, ad esempio perché va in pensione – che viene limitato per il 2025 al 75% (quindi per ogni 4 persone che escono una amministrazione potrà assumerne solamente 3). Una norma inserita quasi di nascosto nella legge di bilancio (art. 110) e che ci riporta indietro all’era pre-covid, quando una forte limitazione del turnover era la norma. E a poco serve ricordare che, facendo qualche confronto internazionale, si scopre che il numero dei dipendenti pubblici in Italia non è affatto superiore a quello degli altri Paesi, mentre sicuramente l’età media dei dipendenti pubblici da noi è ben più alta rispetto agli altri paesi. Per fare un confronto internazionale, un indicatore particolarmente opportuno è quello del rapporto fra numero di abitanti e numero di dipendenti pubblici, che ci dice cioè quante persone possono ricevere servizi da un singolo dipendente pubblico (ovviamente, quanto più alto è questo rapporto, peggiori saranno verosimilmente quantità e qualità del servizio erogato): ebbene (dati 2020), tale rapporto in Italia è pari a 17,37 (quindi, ogni dipendente pubblico in generale deve assicurare servizi a 17,37 abitanti), ben superiore non solo a Francia, Spagna e UK, ma anche a Germania e USA. I dati settoriali sono anche peggiori, indicando che un lavoratore della sanità, per fare un esempio sotto gli occhi di tutti, deve prendersi cura del doppio dei pazienti rispetto a Germania, Francia e Svezia.
La furia dell’austerità (pardon, della responsabilità) impone, per riprendere le parole del ministro Zangrillo, che “ognuno faccia la sua parte”. Eppure il ministro avrebbe dovuto dare retta... al sé stesso di pochi giorni prima, quando ad un incontro di Confindustria aveva candidamente ammesso che “Nei prossimi 5 anni perderemo 1 milione di dipendenti della Pubblica amministrazione” e che “Abbiamo disperato bisogno di giovani”.
La diminuzione di personale peraltro andrà di pari passo con i tagli lineari imposti tanto ai ministeri (nell’ordine del 5% della loro dotazione) quanto alle regioni (oltre 6 miliardi di euro aggiuntivi di tagli da qui al 2029) e agli altri enti locali (ulteriori 1,5 miliardi di tagli per Comuni e Province sempre da qui al 2029). Si tratta, in questo caso, dei primi effetti perversi del nuovo patto di stabilità che pone sotto controllo direttamente la spesa primaria degli Stati. È evidente che tagli di questa entità comporteranno non semplici “risparmi di gestione” ma veri e propri interventi di riduzione dei programmi di spesa delle amministrazioni (quindi, in definitiva, meno investimenti pubblici e meno servizi per i cittadini).
Possiamo proseguire, nella ricostruzione della lotta senza quartiere condotta dal Governo contro il pubblico impiego, con il rinnovo dei contratti per i lavoratori di questo settore. Con grande (e fuori luogo) enfasi, sempre il ministro Zangrillo – nel commentare i lavori preparatori della manovra di bilancio – aveva rivendicato che venivano già previste le risorse per il rinnovo del contratto per il triennio 2025-27. E perfino Giorgetti si è lanciato nel magnificare tale “innovazione straordinaria rispetto alle abitudini della contabilità pubblica” (in quanto solitamente le risorse sono stanziate solamente al termine del triennio di riferimento), chiarendo comunque che le risorse stanziate dovrebbero garantire – sempre per il triennio 2025-2027 – il recupero dell’inflazione attesa, che è previsto essere quasi insignificante!
Tutto a posto, quindi? Niente affatto, perché nella premura di occuparsi del triennio 2025-2027 (per il quale comunque ai lavoratori interessa poco quando le risorse sono stanziate, ma piuttosto quando sono effettivamente erogate) i due ministri trascurano allegramente il fatto che ci sono ancora da stipulare i contratti per il triennio 2022-2024, periodo durante il quale l’inflazione è stata tragicamente alta e le risorse stanziate dal Governo non sono assolutamente adeguate. Queste, infatti, comporteranno una perdita di salario reale per i lavoratori intorno al 10% (cioè, una famiglia nonostante il rinnovo del contratto potrà comprare il 10% di beni e servizi in meno rispetto a quanto poteva permettersi prima). Insomma, il Governo butta la palla in avanti, mettendo su carta pochi soldi per il triennio successivo, ma non muove un dito per aumentare le risorse per il rinnovo contrattuale da chiudere ora e provare a garantire un minimo di recupero di salario reale già perso. Anzi, per essere precisi un dito lo muove (il medio?) prendendo in giro i lavoratori e inserendo nella legge di bilancio un nuovo stanziamento che porterà – udite udite – ben 6 euro (lordi) in tasca ai lavoratori.
Non stupisce che un contratto (quello 2022-2024) così irricevibile venga rispedito al mittente da parte delle organizzazioni sindacali, per lo meno da quelle non disposte a perdere del tutto la faccia davanti ai lavoratori. Oltre USB che, coerentemente con quanto detto e già fatto in passato, ha abbandonato il tavolo del rinnovo del comparto funzioni centrali, pare infatti che stavolta anche CGIL e UIL non saranno disponibili a sottoscrivere un contratto così indecente. Si va quindi verso un contratto, e sarebbe una prima volta in assoluto nel lavoro pubblico, sottoscritto unicamente da CISL e qualche sigla autonoma di destra, tutte organizzazioni ben contente, evidentemente, di accreditarsi agli occhi del Governo Meloni come interlocutori “responsabili”. Il danno per i lavoratori di questa operazione è doppio: da una parte si troveranno un contratto rinnovato con aumenti ridicoli, ma “legittimato” da qualche organizzazione sindacale compiacente, dall’altro rischiano di perdere rappresentanza anche sui tavoli sindacali locali. Occorre infatti evidenziare una criticità specifica delle relazioni sindacali in ambito pubblico: da una parte è l’unico settore in cui esiste un criterio di rappresentatività perché un’organizzazione sia ammessa al tavolo negoziale in sede di contratto collettivo (un’organizzazione è rappresentativa se supera la soglia del 5%, calcolata come media del numero degli iscritti e dei voti ricevuti alle elezioni per le RSU), dall’altra – in virtù di una norma profondamente antidemocratica – si prevede che ai tavoli di contrattazione integrativa (che trattano ormai moltissime materie fondamentali, dall’organizzazione del lavoro alla sicurezza sui luoghi di lavoro, passando per i meccanismi di valutazione e premialità) siano ammesse unicamente le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto collettivo. Come dire: con una mano la legge afferma che sei rappresentativo, con l’altra prevede che sei rappresentativo solamente se mi dici sempre di sì...
Inoltre, vale la pena di ricordare un’ultima attenzione che il Governo ha rivolto al settore pubblico, vale a dire l’impegno, solennemente assunto e messo nero su bianco nel Piano Strutturale di Bilancio inviato a Bruxelles, di “assicurare che almeno il 20% dei posti vacanti a livello annuale per posizioni dirigenziali siano assegnati ai funzionari più meritevoli, selezionati sulla base di un’adeguata procedura di valutazione della performance”. Un ennesimo colpo al principio democratico inserito in Costituzione secondo cui ai pubblici impieghi si accede per concorso, parzialmente sostituito con una più comodo “procedura di valutazione della performance” che permetterà di offrire crescita professionale ed economica in misura totalmente discrezionale, in modo da premiare i dipendenti più fedeli e accondiscendenti.
Al posto del “mondo ideale” vagheggiato dal ministro Zangrillo prende luce quindi l’idea di pubblica amministrazione di questo Governo: meno dipendenti, più anziani, meno pagati e (per le posizioni apicali) selezionati sempre più arbitrariamente.
Noi vogliamo il contrario, cioè servizi pubblici adeguati per quantità e qualità, e questo si potrà ottenere solamente partendo dal restituire dignità a chi nel settore pubblico lavora e, nonostante i tentativi di definitivo affossamento (funzionali a fare spazio al privato per chi può permetterselo), fa funzionare uffici, scuole e ospedali che quotidianamente utilizziamo.
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