Django
ha riempito le sale e provocato, come di consueto, una netta spaccatura
fra detrattori e sostenitori. Con l’intenzione di celebrare il mondo
degli spaghetti western, Quentin rielabora molto liberamente l’omonimo
film di Sergio Corbucci datato 1966. La parabola del reduce di guerra in
cerca di vendetta per l'assassinio della moglie avvenuto in sua
assenza, diventa in Tarantino un circolo vizioso in cui cercano di
convivere tematiche sociali (la schiavitù), filmiche (i riferimenti al
genere western) e antropologiche (i rapporti non-umani tra umani).
Un’operazione che nelle mani di Tarantino diventa una miscela esplosiva.
Il film in effetti esplode letteralmente. Scoppia. Deflagra. Trabocca.
Sbodda. Svacca. Smarmella. In altre parole: eccede.
Dopo
un inizio poco incisivo con l’incontro tra lo schiavo negro Django e il
cacciatore di taglie tedesco (e siamo già molto lontani dalla
perfezione della sequenza di apertura di Inglorious Bastard) la
storia procede verso il fulcro narrativo della liberazione e della
vendetta: lo schiavo negro viene reso uomo libero, diviene cacciatore di
taglie e insieme all’uomo bianco tedesco libera la moglie tenuta
schiava da un negriero appassionato di mandinghi. All’interno di questo
contesto, Tarantino costruisce un’ottima impalcatura spettacolare fatta
di sparatorie, sangue, squirt, ralenty, citazioni alte e basse,
dialoghi (a dire il vero pochi degni di nota) e violenza reiterata. In
buona sostanza il classico stile Tarantiniano.
Tuttavia
a questo giro di ruota, alla forma accattivante della forma volutamente
caricaturale non corrisponde un sufficiente impiego dei contenuti.
Tarantino getta la bussola abbandonando le coordinate filmiche, in
favore di una completa affermazione dell’estetica fine a se stessa,
svuotata di senso, tanto accattivante quanto pericolosamente vicina
all’ambiguo limite della strumentalizzazione. Il gioco
brechtiano della violenza svuotata di senso emotivo in questo caso è
assente. La violenza è amplificata, reiterata, rallentata, estetizzata,
resa talmente abominevole da risultare affascinante e divertente, ma
alla base non c’è traccia di nessun meccanismo critico. Schizzi
di sangue rosso su fiori bianchi. Corpi che si devastano, negri che
uccidono altri negri indossando occhiali cool, negri che uccidono
bianchi, bianchi che uccidono bianchi, bianchi che uccidono negri e
animali.
Ma
a distanza di quasi vent’anni, il post-moderno è morto e sepolto e
l’eterno presente non può tingersi solo di forma e merda ben
impacchettata (per quello basta e avanzano autori come Michael Bay). Se
la scelta è questa e se proprio c’è l’esigenza di “fare il cazzo che ci
pare” sarebbe giusto e opportuno non toccare certe tematiche,
dedicandosi alla legittima celebrazione auto-referenziale (vedi il
comunque riuscito Death Proof).
Ma
la questione non tocca più neanche le intenzioni dell’autore che, a
detta di tutti, “ha voluto fare un film così…non voleva raccontare
nient’altro”. La questione è constatare quanto un autore di livello sia
completamente immerso in un horror vacui comunicativo. Come ha detto un
amico genovese, in questo momento, Tarantino non ha veramente niente da
dire. Si accontenta di mostrare, divertire, indignare ma non di
comunicare qualcosa di concreto e tangibile. Secondo la concezione
Wikipedica-Aristotelica la natura rifugge il vuoto e perciò lo
riempie costantemente ; ogni gas o liquido tenta costantemente di
riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote.
Tarantino, non sapendo cosa dire, satura lo schermo di orpelli, fronzoli
e ghirigori, abbandonandosi al puro divertimento delle forme, finendo
per diventare parodia di se stesso.
È
innegabile. Django è un film divertente, recitato da ottimi attori; di
quel divertimento che a seconda dei casi ti fa venire il cazzo duro
dall’eccitazione. È comprensibile che in molti spettatori susciti
entusiasmo, come è comprensibile la scelta di difendere un gusto per
l’eccesso e il trash. La realtà però è che in questo caso Tarantino ha
apparecchiato una tavola piena di merda travestita da aragosta. Nessun
problema. Se questa è la sua deriva possiamo prenderne atto non
aspettandoci più niente dal suo futuro. Lo spettatore però non deve aver
paura di dire che quello che sta apprezzando sia merda, non deve temere
il giudizio degli altri affermando il suo palese gusto coprofago. Lo
faceva Gianni Morandi possiamo farlo anche noi.
Con la speranza che qualcosa cambi, annunciamo per tre volte al popolo la sentenza.
Quentin è morto. W Quentin
Quentin è morto. W Quentin
Quentin è morto W Quentin
per senzasoste.it
Jacques Bonhomme
Fonte
Avevo una mezza idea d'andarlo a vedere, ora m'è passata la voglia.
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