01/06/2014
Diversi mondi. Nell’ex Indocina il Laos pacificato
Federico Klausner ha deciso di scuoterci. Viaggio avventura nel lontano Laos, dove, ci spiega a farci paura, “Non c’è telefono né corrente elettrica e le cene, a base di sticky rice (riso colloso), zucca, germogli di bambù e taro (un tipo di tubero), sono rischiarate da un paio di candele”.
Viaggio attraverso uno dei paesi più sconosciuti d’Asia rimasto al di fuori dei tradizionali circuiti turistici. Un paese verdissimo e abitato da più di 60 etnie che conservano le loro tradizioni e vivono in simbiosi con la grande foresta.
La slow boat lunga e sottile abbandona l’argine scosceso, ritirando lo strettissimo asse utilizzato come passerella per imbarcare i passeggeri. In un attimo il Wat Xieng Thong, il più bel monastero di Luang Prabang e forse dell’intero Laos, sparisce inghiottito dalla fitta vegetazione. Il Mekong si risveglia lentamente, riscaldato dalla luce che filtra attraverso la coltre ovattata che lo protegge. La storica capitale sorge alla confluenza con il Nam Ou, che si risale alla volta di Nong Khiaw, a 6 ore di navigazione e poco più di 120 km; ma in Laos il tempo ha altri ritmi e non possiede il valore che siamo abituati attribuirgli.
Con perizia il barcaiolo affronta rapide profonde una spanna, serpeggiando tra secche e banchi di sabbia. Il fiume, a tratti color caffelatte, a tratti grigio perla, non è molto ampio e permette di osservare da vicino la vita lungo le sue sponde: le coltivazioni ripide, la pesca effettuata lanciando reti rotonde, i giochi dei bambini perennemente nudi legati all’acqua da un cordone ombelicale, la gente che si lava, i trasporti. Dove non ci sono coltivazioni le rive sono pareti verticali carsiche o colline coperte di foreste impenetrabili; dove sono state disboscate lasciano spazio a piantagioni di banane. Oltre Muang Khua il Nam Ou scorre ancora più stretto, incastrato tra cime verdi da acquerello giapponese. Per carenza di passeggeri viaggio seduto su un carico di legna. Sul Nam Hanà stanno sbaraccando un mercato e il barcaiolo decide di arrotondare l’incasso imbarcando un commerciante con il suo puzzolente sacco di bachi da seta. Fastidioso, ma sempre meglio di un mazzo di polli legati per le zampe tra loro o di una scrofetta nera incaprettata. Tra una rapida e l’altra la barca si trasforma in ambulanza: sbarcano il legname e il tipo dei bachi e sale un ragazzo con la gamba rotta e intrisa di sangue per un errore di motosega.
Occorre un pronto soccorso e il più vicino e’ a Phongsali. Capitale dell’omonima provincia, a 1600 metri di altezza e incuneata tra Vietnam e Cina, Phongsali galleggia sopra le nebbie umide della pianura, circondata da villaggi sparsi sulle montagne, abitati da ben 28 minoranze etniche, tra cui gli Akha, i Phou Noi, i Lu, i Lao Soung e gli Yunnanesi. Una zuppa di noodles e un lao tea dall’inconfondibile odore di mozzicone spento sono il viatico per il lungo trekking verso il villaggio Akha di Thankampa. Molte ore di marcia, prima attraverso campi di riso a sfumature verdi e gialle, guadando ruscelli e canali, accompagnati da nuvole di farfalle e libellule colorate, grandi come passeri.
Poi su una salita fradicia, scolpita da impronte di bufali, che rendono faticosa la marcia e affollata da sanguisughe in agguato, per raggiungere un pugno di capanne in cima a una collina. Sono costruite con canne di bambù, senza pavimento ne’ finestre, buie e sature del fumo emanato dal fuoco, sempre acceso. Una pedana di legno ricoperta da stuoie e materassi, un micro tavolo e sgabelli alti quanto un mattone costituiscono tutto l’ arredamento. In realtà i fuochi sono due, uno per ogni ambiente, perché uomini e donne delle diverse famiglie, che coabitano, vivono separati. Per stare insieme si nascondono nella foresta, utilizzata anche come toilette; provvedono alla pulizia i maialini che con i polli affollano il villaggio.
Non c’è telefono né corrente elettrica e le cene, a base di sticky rice (riso colloso), zucca, germogli di bambù e taro (un tipo di tubero), sono rischiarate da un paio di candele. Durante il giorno, mentre gli uomini coltivano i campi su pendenze impossibili, le donne mondano il riso, filano il cotone e tingono con radici e foglie abiti di taglia anoressica. Il colore distintivo dell’etnia è il nero, bordato di nastri sgargianti, che si trasforma dopo qualche lavaggio in blu pallido. Non hanno molti divertimenti gli Akha: durante il festival del pollo che si tiene due volte all’anno, per l’inizio del raccolto e per l’anno nuovo, girano per tre volte intorno alla capanna con lo sventurato animale picchiandolo in testa e strappandogli una penna a ogni angolo, per allontanare gli spiriti maligni. Alla fine viene decapitato, mangiato e le sue ali appese a una parete. Un passatempo meno truce consiste nel dondolare su grandi altalene rituali in bambù costruite in queste occasioni: gli sciamani per primi poi tutti gli altri. Ma dura poco: nove giorni e le altalene vengono abbandonate per essere ricostruite l’anno successivo.
Fonte
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento