di Michele Paris
Uno degli
obiettivi principali del primo ministro ultra-conservatore del Giappone,
Shinzo Abe, fin dal suo ritorno al potere sul finire del 2012 è stato
quello di imprimere una svolta in senso militarista al paese, in modo da
avere a disposizione uno strumento fondamentale per le ambizioni da
“grande potenza” coltivate dall’estrema destra nipponica.
Per raggiungere lo scopo che lo stesso premier si era prefissato
almeno un decennio fa, è però necessario modificare, o quanto meno
“reinterpretare”, la Costituzione marcatamente pacifista del paese
asiatico, approvata nel 1947 durante l’occupazione americana.
In
particolare, nel mirino di Abe e del suo Partito Liberal Democratico
(LDP) c’è l’articolo 9 che recita: “Il popolo giapponese rinuncia per
sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o
all’uso della forza come strumento per la risoluzione delle dispute
internazionali”. Per questa ragione, il Giappone non può mantenere
“forze di terra, di mare, di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente
militare”.
Inizialmente, sull’onda del relativo entusiasmo
suscitato tra i media e gli ambienti del business giapponesi dalla
creazione del suo Gabinetto, Abe era intenzionato a riscrivere
interamente questa parte della Costituzione. Di fronte alle resistenze
del principale partner di governo del LDP, il partito buddista Nuovo
Komeito, e soprattutto alla profonda opposizione popolare, Abe è stato
però costretto a fare una parziale marcia indietro.
Per
implementare qualsiasi modifica alla Costituzione giapponese è
necessaria infatti l’approvazione di entrambi i rami della Dieta
(Parlamento) con una maggioranza di due terzi. Gli emendamenti, inoltre,
devono essere sottoposti a un referendum popolare.
Di fronte a
questi ostacoli rivelatisi insormontabili, il primo ministro ha deciso
così per una scorciatoia, inventando cioè il concetto profondamente
anti-democratico di “reinterpretazione” della Costituzione stessa per
raggiungere in sostanza lo stesso obiettivo.
Abe ha allora
nominato una speciale commissione formata da personalità sulla sua
stessa lunghezza d’onda a cui ha affidato l’incarico di fornire
raccomandazioni circa il ruolo delle Forze di Auto-Difesa, ovvero
l’esercito giapponese, istituite nel 1954 nonostante i limiti imposti
dal dettato costituzionale. Ottenuto l’inevitabile appoggio della
commissione al suo progetto, Abe si è presentato ai propri alleati per
trovare un accordo sulla “reinterpretazione” dell’articolo 9,
incontrando però maggiori ostacoli del previsto anche all’interno del
suo stesso partito.
Il piano del premier si basa sul principio di
“difesa collettiva”, in base al quale le forze armate giapponesi
potrebbero partecipare ad azioni militari non solo per difendere il
paese in caso di attacco ma anche a fianco di un alleato, se fosse
quest’ultimo ad essere attaccato.
La
mossa di Abe è appoggiata dagli Stati Uniti, i quali vedono con favore
la soppressione di qualsiasi vincolo costituzionale che limiti il pieno
coinvolgimento del Giappone nelle manovre di Washington in Estremo
Oriente. Queste ultime, com’è noto, prevedono un’escalation militare nei
confronti della Cina, con il rischio concreto di scatenare una guerra
rovinosa, e la parallela formazione - sempre in funzione anti-cinese -
di un’alleanza militare con paesi come Australia, Filippine, Corea del
Sud e, appunto, Giappone.
Negli ultimi anni, peraltro, le forze
armate nipponiche hanno già contribuito alle avventure belliche
statunitensi, sia in Afghanstan che in Iraq, ma l’intenzione di Abe è
ora quella di attribuire ai propri militari la piena capacità di
condurre operazioni di combattimento al fianco degli alleati.
Il
Giappone, inoltre, è già ampiamente coinvolto nelle strategie belliche
degli USA, come dimostra la presenza di basi militari americane sul
proprio territorio. Tuttavia, mentre l’alleanza tra i due paesi
obbligherebbe i militari americani ad assistere il Giappone in caso di
aggressione nei suoi confronti, le forze armate di Tokyo non potrebbero
ad esempio affiancare gli Stati Uniti in una guerra contro la Cina per
via dei limiti costituzionali.
La “reinterpretazione”
dell’articolo 9 ideata da Abe è comunque solo l’ultima delle iniziative
adottate dal primo ministro a partire dal dicembre 2012. L’impronta
militarista al paese è risultata evidente anche dall’aumento delle spese
militari, così come dalla crescente aggressività mostrata nei confronti
della Cina attorno alle dispute territoriali nelle acque condivise con
il vicino occidentale.
Infine, il governo del LDP ha recentemente
istituito un Consiglio per la Sicurezza Nazionale sull’esempio di
quello americano, mentre ha rinvigorito l’alleanza strategica con
Washington e avviato una campagna all’insegna del revisionismo storico
nel tentativo di sminuire i crimini di guerra commessi dall’imperialismo
giapponese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.
Questa
preoccupante evoluzione registrata a Tokyo ha determinato un
deterioramento dei rapporti non solo con la Cina ma anche con la Corea
del Sud, vittime entrambe della durissima occupazione giapponese fino
alla seconda Guerra Mondiale. In maniera ovvia, i due paesi hanno perciò
criticato aspramente l’intenzione del primo ministro giapponese di
rivedere la propria Costituzione in senso miltarista.
Come già
anticipato, le mire di Abe sulla Costituzione sono viste con sospetto
anche dall’alleato di governo Nuovo Komeito, in larga misura a causa
delle tendenze generalmente pacifiste della base elettorale di
quest’ultimo partito, formata in prevalenza da giapponesi di fede
buddista.
Per far digerire la “reinterpretazione” dell’articolo 9
a questo partito sono in corso da giorni accese trattative, visto che
Abe vorrebbe affrettare i tempi dell’approvazione da parte del suo
gabinetto. L’urgenza è resa necessaria dalla crescente opposizione nel
paese per l’accelerazione militarista impressa dal governo e in
previsione dell’imminente approvazione di un nuovo impopolare aumento
dell’imposta sui consumi.
Per
superare le resistenze del partito Nuovo Komeito, Abe potrebbe
apportare delle modifiche alla sua proposta, ad esempio inserendo il
principio della “sicurezza collettiva” nell’ambito di operazioni
militari approvate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite. Questa proposta, emersa durante i negoziati della scorsa
settimana, secondo il quotidiano Asahi Shimbun sarebbe tuttavia già stata scartata.
Un’altra
ipotesi potrebbe essere invece quella di consentire l’intervento
militare soltanto nel caso in cui si presentasse “un pericolo esplicito”
per la popolazione giapponese e non semplicemente se ci fosse “il
timore” di una minaccia al paese, com’era stato inizialmente stabilito.
Secondo
gli osservatori, in ogni caso, i due partiti riusciranno alla fine a
trovare un punto d’incontro che permetterà al primo ministro di ottenere
quanto desidera, come conferma la rassicurazione fornita da tempo dai
vertici del Nuovo Komeito di non avere alcuna intenzione di abbandonare
la coalizione di governo a causa della questione della “sicurezza
collettiva”.
La volontà del governo di Tokyo di mettersi alle
spalle in fretta la “reinterpretazione” della Costituzione circa il
ruolo delle forze armate è più che comprensibile alla luce degli umori
del paese. Come hanno mostrato svariati sondaggi, infatti, la
percentuale dei giapponesi contrari all’iniziativa del premier Abe
appare in continua crescita.
In una rilevazione risalente allo scorso maggio della rete televisiva NHK,
ad esempio, il 41% degli intervistati si era detto contrario alla
“reinterpretazione” contro il 34% di favorevoli. Secondo un sondaggio
pubblicato qualche giorno fa dall’agenzia di stampa Kyodo,
addirittura, i contrari sarebbero ora saliti al 55,4%, mentre quasi il
58% ha espresso il proprio malcontento per il metodo con cui Abe sta
operando per implementare una vera e propria modifica costituzionale
aggirando le regole stabilite.
Più in generale, lo stesso
sondaggio ha evidenziato il raggiungimento da parte dell’esecutivo
guidato dal LDP del punto più basso in termini di gradimento (52,1%) dal
suo insediamento a fine 2012, prospettando una crescente opposizione
nel paese nei confronti non solo della riproposizione di un pericoloso
militarismo, fortemente avversato dalla maggioranza della popolazione,
ma anche delle ricette economiche ultra-liberiste su cui si basa il
programma di governo di Shinzo Abe.
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