Le attuali politiche economiche
riproducono lo storico dualismo tra Settentrione e Mezzogiorno d’Italia
su scala europea. Con la forbice tra Nord e Sud Europa che si allarga,
il quadro finanziario dell’eurozona non potrà stabilizzarsi e le
prospettive di tenuta della moneta unica europea rimarranno incerte.
Emerge così una nuova “questione meridionale”, che investe l’intera
Unione e può incidere sui suoi destini.
L’attuale crisi europea è un fenomeno
complesso, non solo per le sue dimensioni generali ma anche per le
tremende divergenze macroeconomiche che produce. Tra il 2008 e il 2013
Spagna, Italia, Portogallo, Grecia e Francia hanno perso
complessivamente più di sei milioni di posti di lavoro, mentre in
Germania si è registrato un aumento dell’occupazione di un milione e
mezzo di unità. Inoltre, dall’inizio della crisi le insolvenze delle
imprese sono diminuite in Germania mentre sono aumentate del novanta
percento in Italia e del duecento percento in Spagna. Si tratta di una
forbice senza precedenti in epoca di pace, che tra l’altro alimenta le
sofferenze delle banche mediterranee e accentua la loro debolezza
rispetto agli istituti di credito del Nord del continente. La politica
monetaria della BCE è uno strumento troppo limitato per fronteggiare da
sola una crisi così asimmetrica, che ricade soprattutto sul Sud Europa e
che invece sembra avvantaggiare la Germania e alcuni suoi satelliti.
Il guaio è che le altre leve della
politica economica, a partire da quella fiscale, restano ancorate alla
linea dell’austerity. A questo proposito molti auspicano un allentamento
dei vincoli di bilancio imposti dai trattati europei, cercando di
scorgere nella linea del governo tedesco qualche apertura in tal senso.
Per il momento, tuttavia, nell’establishment comunitario la dottrina
dell’austerità resta prevalente: lo dimostrano le ultime raccomandazioni
della Commissione Europea, che esorta il governo italiano ad insistere
con le manovre di taglio della spesa pubblica e di aumento della
pressione fiscale. Sotto questo aspetto, non solo il governo tedesco ma
anche la Commissione, la BCE e le altre istituzioni europee insistono
con l’idea che ulteriori restrizioni dei bilanci statali contribuiranno
al risanamento finanziario e alla ripresa economica dei paesi del Sud
Europa.
Eppure gli errori di previsione compiuti
negli ultimi anni dovrebbero indurre qualche riflessione. Nella
primavera del 2010 la Commissione europea formulò una previsione di
crescita del Pil italiano per il 2011 di 1,4 punti percentuali; in
realtà a fine anno l’incremento effettivo della produzione nazionale fu
di appena 0,4 punti. Per il 2012 l’errore della Commissione fu ancor più
accentuato: la sua previsione di crescita di 1,3 punti venne smentita
da un crollo di 2,4 punti. Ed ancora, per il 2013 Bruxelles stimò un
aumento del Pil di 0,4 punti, ma il risultato effettivo fu una caduta di
altri 1,8 punti. C’è da scommettere che anche per il 2014 assisteremo a
una pesante revisione al ribasso delle stime iniziali. Oltretutto
questi peccati di ottimismo sull’andamento del Pil italiano non
costituiscono un’eccezione. Un esempio ancor più lampante è costituito
dalla previsione 2011 sull’andamento della produzione in Grecia per
l’anno successivo: uno scarto dal dato reale addirittura superiore ai
sette punti percentuali.
Ovviamente, man mano che ci si avvicina
alla fine dell’anno le stime della Commissione tendono a migliorare, ma
di solito gli errori iniziali sono di tale portata da pregiudicare anche
le correzioni successive. Al cospetto di errori così ampi, gli
economisti usano dire che non si potrebbe far peggio nemmeno se le
previsioni fossero formulate in base a una “passeggiata casuale” sui
numeri da parte di un ubriaco.
La spiegazione più accreditata di questi
abbagli è che le istituzioni europee stanno sottovalutando quel
fenomeno che va sotto il nome di “moltiplicatore keynesiano”: una data
contrazione del deficit pubblico può determinare una riduzione ancor più
accentuata della domanda di beni e servizi e quindi anche della
produzione e del reddito nazionale, con la conseguenza di peggiorare
anziché migliorare le capacità di rimborso dei debiti, sia pubblici che
privati. Si tratta di una sottovalutazione grave anche perché accentua
la spaccatura interna all’eurozona. L’austerità, infatti, viene imposta
soprattutto ai paesi mediterranei. Avere così pesantemente sottostimato
gli effetti depressivi di questa politica sta determinando un ulteriore
ampliamento dei divari tra il Sud e il Nord dell’Unione, senza peraltro
sanare la situazione finanziaria dei paesi del Sud. Si alimenta in tal
modo quella che Paul Krugman ha definito “mezzogiornificazione” europea:
vale a dire, una riproduzione su scala continentale del tremendo
dualismo che da decenni condiziona i rapporti tra settentrione e
meridione d’Italia. Potremmo dire, insomma, che lungo la linea di faglia
tra Nord e Sud Europa sta emergendo una nuova questione meridionale, che travalica i confini del nostro paese e potrebbe incidere sui destini delle istituzioni comunitarie.
E’ esattamente questo lo scenario preannunciato dal “monito degli economisti” apparso sul Financial Times
nel settembre scorso: con una politica di austerity che contribuisce
all’allargamento della forbice macroeconomica tra paesi del Nord e paesi
del Sud, il quadro finanziario dell’eurozona non potrà stabilizzarsi e
le prospettive di tenuta della Unione monetaria europea rimarranno
incerte.
di Emiliano Brancaccio, da Il Mattino, 26 giugno 2014
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