di Antonio Rei
La vulgata
recita così: l'Italia ha ottenuto dall'Europa maggiore flessibilità sui
conti pubblici in cambio delle riforme strutturali*. Sarebbe bello, ma
non è vero. Si tratta di una bugia colossale, l'apice del teatro
renziano che venerdì scorso, nella sala stampa di Bruxelles, ha trovato
il più vasto palcoscenico possibile.
La panzana si articola su
diversi piani. In primo luogo, dall'Ue non arriva alcun nuovo margine di
flessibilità a beneficio dei Paesi in crisi. Non sta scritto da nessuna
parte. Nell'ultima bozza del Consiglio europeo si parla di "fare
miglior uso della flessibilità" già prevista nel Patto di stabilità,
ovvero quel Fiscal compact che i 28 ribadiscono di voler rispettare.
L'impegno rimane inderogabile, indiscusso e indiscutibile.
Ergo, non c'è nulla di nuovo, come Angel Merkel aveva anticipato
prima al Bundestag poi alla stampa. L'impostazione della politica
economica europea non cambia di una virgola, non c'è alcuna svolta in
direzione della crescita o della creazione di posti di lavoro.
Fra
le presunte novità, la principale misura prevede lo scorporo del
cofinanziamento dei fondi Ue dal calcolo del deficit. Un passo avanti
positivo, perché aiuterà a incrementare gli investimenti pubblici, ma
non si può presentare come un vero cambiamento di rotta. Lo aveva già
proposto un paio d'anni fa Mario Monti, che certo non era e non è un
pensatore eterodosso rispetto al vangelo rigorista secondo Bruxelles.
L'unica
vera flessibilità di cui i Paesi come l'Italia avrebbero davvero
bisogno è quella sui parametri di bilancio, in particola sul famoso
tetto del 3% al deficit pubblico. Ormai suona come un'eresia, ma non lo
è: in determinate condizioni, lo sforamento è contemplato dallo stesso
Trattato di Maastricht e i primi a usufruire della clausola, più di 10
anni fa, furono proprio Germania e Francia.
C'è però una
differenza cruciale da tenere presente: la flessibilità sul disavanzo
andrebbe a beneficio solo di alcuni Paesi, i più in difficoltà a causa
della crisi, mentre lo scomputo degli investimenti sarà un vantaggio per
tutti, Berlino compresa. Quale sarebbe allora la grande vittoria di
Renzi su Angela Merkel? Quale sarebbe la contropartita per l'appoggio
alla nomina di Jean Claude Juncker alla guida della Commissione Ue?
I
socialisti europei, con il Premier italiano in testa, hanno dato il
proprio via libera alla massima investitura del politico di destra più
rappresentativo degli ultimi anni di tragica austerity, l'uomo simbolo
dell'Europa iper-liberista a trazione tedesca. E lo hanno fatto per
nulla, con l'unico risultato di togliere le castagne dal fuoco alla
Cancelliera, che altrimenti avrebbe dovuto faticare non poco per
superare l'ostilità della Gran Bretagna al grande ritorno del
lussemburghese.
In secondo luogo, non è assolutamente vero che
questa presunta flessibilità aggiuntiva sia in qualche modo legata al
varo di riforme strutturali. Nemmeno di questo si trova esplicitamente
traccia nero su bianco, com'era prevedibile. In effetti, di quali
riforme stiamo parlando? Non si capisce davvero per quale ragione
l'Europa dovrebbe interessarsi allo stravolgimento del Senato italiano e
addirittura premiarci per questo.
Quanto al decretone sulla
Pubblica amministrazione, non piace agli uffici tecnici del Quirinale,
di conseguenza è lecito pensare che nemmeno Bruxelles ne sarà
entusiasta, essendo Giorgio Napolitano il più riconosciuto alfiere
dell'eurocrazia nel nostro Paese.
Renzi potrà anche atteggiarsi a
risoluto sostenitore delle politiche per la crescita, ma nei fatti non
lo è. Non lo è mai stato. La sua azione politica sembra guidata
piuttosto dalla stella polare di una smodata ambizione personale. Le
vittorie che si attribuisce oggi sono solo l'ennesimo colpo di teatro.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento