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30/06/2014

Flessibilità, riforme e bugie

di Antonio Rei

La vulgata recita così: l'Italia ha ottenuto dall'Europa maggiore flessibilità sui conti pubblici in cambio delle riforme strutturali*. Sarebbe bello, ma non è vero. Si tratta di una bugia colossale, l'apice del teatro renziano che venerdì scorso, nella sala stampa di Bruxelles, ha trovato il più vasto palcoscenico possibile.

La panzana si articola su diversi piani. In primo luogo, dall'Ue non arriva alcun nuovo margine di flessibilità a beneficio dei Paesi in crisi. Non sta scritto da nessuna parte. Nell'ultima bozza del Consiglio europeo si parla di "fare miglior uso della flessibilità" già prevista nel Patto di stabilità, ovvero quel Fiscal compact che i 28 ribadiscono di voler rispettare. L'impegno rimane inderogabile, indiscusso e indiscutibile.
Ergo, non c'è nulla di nuovo, come Angel Merkel aveva anticipato prima al Bundestag poi alla stampa. L'impostazione della politica economica europea non cambia di una virgola, non c'è alcuna svolta in direzione della crescita o della creazione di posti di lavoro.

Fra le presunte novità, la principale misura prevede lo scorporo del cofinanziamento dei fondi Ue dal calcolo del deficit. Un passo avanti positivo, perché aiuterà a incrementare gli investimenti pubblici, ma non si può presentare come un vero cambiamento di rotta. Lo aveva già proposto un paio d'anni fa Mario Monti, che certo non era e non è un pensatore eterodosso rispetto al vangelo rigorista secondo Bruxelles.

L'unica vera flessibilità di cui i Paesi come l'Italia avrebbero davvero bisogno è quella sui parametri di bilancio, in particola sul famoso tetto del 3% al deficit pubblico. Ormai suona come un'eresia, ma non lo è: in determinate condizioni, lo sforamento è contemplato dallo stesso Trattato di Maastricht e i primi a usufruire della clausola, più di 10 anni fa, furono proprio Germania e Francia.

C'è però una differenza cruciale da tenere presente: la flessibilità sul disavanzo andrebbe a beneficio solo di alcuni Paesi, i più in difficoltà a causa della crisi, mentre lo scomputo degli investimenti sarà un vantaggio per tutti, Berlino compresa. Quale sarebbe allora la grande vittoria di Renzi su Angela Merkel? Quale sarebbe la contropartita per l'appoggio alla nomina di Jean Claude Juncker alla guida della Commissione Ue?

I socialisti europei, con il Premier italiano in testa, hanno dato il proprio via libera alla massima investitura del politico di destra più rappresentativo degli ultimi anni di tragica austerity, l'uomo simbolo dell'Europa iper-liberista a trazione tedesca. E lo hanno fatto per nulla, con l'unico risultato di togliere le castagne dal fuoco alla Cancelliera, che altrimenti avrebbe dovuto faticare non poco per superare l'ostilità della Gran Bretagna al grande ritorno del lussemburghese.

In secondo luogo, non è assolutamente vero che questa presunta flessibilità aggiuntiva sia in qualche modo legata al varo di riforme strutturali. Nemmeno di questo si trova esplicitamente traccia nero su bianco, com'era prevedibile. In effetti, di quali riforme stiamo parlando? Non si capisce davvero per quale ragione l'Europa dovrebbe interessarsi allo stravolgimento del Senato italiano e addirittura premiarci per questo.

Quanto al decretone sulla Pubblica amministrazione, non piace agli uffici tecnici del Quirinale, di conseguenza è lecito pensare che nemmeno Bruxelles ne sarà entusiasta, essendo Giorgio Napolitano il più riconosciuto alfiere dell'eurocrazia nel nostro Paese.

Renzi potrà anche atteggiarsi a risoluto sostenitore delle politiche per la crescita, ma nei fatti non lo è. Non lo è mai stato. La sua azione politica sembra guidata piuttosto dalla stella polare di una smodata ambizione personale. Le vittorie che si attribuisce oggi sono solo l'ennesimo colpo di teatro.

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