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25/06/2014

Libia - Aprono le urne per le elezioni farsa

La Libia torna al voto: si aprono oggi i seggi per l’elezione del nuovo parlamento libico, nuova consultazione in un Paese devastato, attraversato da tentativi di golpe, instabilità politica radicata e un’economia allo sbando.

Dopo la fuga in Europa dell’ex premier Ali Zeitan, a fine maggio la Libia del post-Gheddafi ha assistito all’offensiva dell’ex generale, Khalifa Haftar, ex uomo della CIA tornato nel Paese dopo la caduta del colonnello. Obiettivo dichiarato della cosiddetta Operazione Karame (dignità), la cancellazione dei gruppi islamisti attivi soprattutto in Cirenaica. Migliaia di persone erano scese nelle piazze libiche, da Tripoli a Bengasi, per manifestare sostegno al generale, che nel frattempo prometteva nuove elezioni, mentre il neonato Esercito Nazionale Libico (forte di centinaia di soldati e di mezzi militari) portava avanti attacchi cruenti contro gli islamisti, Ansar al-Sharia in primis.

In mezzo la crisi governativa, con due premier che si contendevano lo scranno di primo ministro e la Corte Costituzionale che definiva illegittima la nomina dell’islamista Maiteg. Il businessman, vicino alla Fratellanza Musulmana, si è fatto da parte il 10 giugno, con il plauso della comunità internazionale che, dopo aver gettato nel caos il Paese, chiede oggi stabilità e riconciliazione. A contrapporsi a Maiteg era il precedente primo ministro, Abdullah al Thani, dimessosi ad aprile, ma in prima fila contro la nomina dell’avversario.

E oggi si torna alle elezioni: per evitare ulteriori settarismi politici, si presentano solo candidati indipendenti e non rappresentanti di partito per un parlamento che conta 200 seggi. Circa 1.600 i candidati. Il timore - fondato - è quello di una bassissima partecipazione della popolazione (nel 2012 si registrarono nelle liste elettorali quasi 3 milioni di libici, stavolta sono circa 1,5 milioni). Tripoli è in stallo, con l’assemblea costituente ancora al lavoro sul testo della nuova costituzione che non ha ancora definito il sistema politico libico. L’obiettivo del voto, la formazione di un governo forte in grado di affrontare sia la crisi economica ed energetica sia le milizie armate e le tribù che sostennero la deposizione di Gheddafi. I centri di potere sorti in Libia dopo la scomparsa del pugno di ferro del colonnello sono diversi e pericolosi: tribù, milizie armate, Fratelli Musulmani, soggetti in grado di controllare fette di Paese e le sue ricchezze petrolifere, come chiaramente dimostrato in Cirenaica: pozzi di petrolio occupati dalle milizie e tentativi di vendita di greggio all’estero dai porti del Paese sotto il controllo dei miliziani anti-Tripoli.

I timori serpeggiano anche tra gli internazionali di stanza in Libia: la Turchia ha evacuato in questi giorni centinaia di suoi cittadini, dopo le minacce contro Ankara e Doha sbandierate dall’ex generale Haftar.

A preoccupare oggi, a tre anni dalla caduta di Gheddafi, è la condizione politica ed economica di un Paese nel caos. Il governo figlio dell’attacco militare della NATO si sta dimostrando incapace di ricostruire l’economia libica e di disarmare tutte quelle milizie che nel 2011 fecero cadere il colonnello: nessuno intende abbandonare le armi e oggi si stima che per il Paese girino 16 milioni di pistole e fucili, su una popolazione totale di 6 milioni di persone. A ciò si aggiunge la storica divisione tra Tripolitania e Cirenaica, con Bengasi che punta con forza all’autonomia dal potere centrale.

Ad operare ex milizie oggi dichiaratesi “governo indipendente”, attive soprattutto in campo energetico: nell’ultimo anno i gruppi indipendentisti hanno occupato porti e pozzi di petrolio, impedendo l’esportazione del greggio all’estero, principale fonte di entrata del PaeseOggi la produzione è crollata a 165mila barili al giorno, contro il milione e mezzo del 2012. Gli investitori esteri scappano e le compagnie petrolifere preferiscono evitare un Paese nel caos, senza forze di polizia coese e un governo instabile, il cui premier viene sostituito a intervalli quasi regolari, senza una costituzione né istituzioni in grado di guidare la ricostruzione.

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