La Libia torna al voto: si aprono oggi i seggi per l’elezione del
nuovo parlamento libico, nuova consultazione in un Paese devastato,
attraversato da tentativi di golpe, instabilità politica radicata e
un’economia allo sbando.
Dopo la fuga in Europa dell’ex premier Ali Zeitan, a fine maggio la
Libia del post-Gheddafi ha assistito all’offensiva dell’ex generale,
Khalifa Haftar, ex uomo della CIA tornato nel Paese dopo la caduta del
colonnello. Obiettivo dichiarato della cosiddetta Operazione
Karame (dignità), la cancellazione dei gruppi islamisti attivi
soprattutto in Cirenaica. Migliaia di persone erano scese nelle piazze
libiche, da Tripoli a Bengasi, per manifestare sostegno al generale,
che nel frattempo prometteva nuove elezioni, mentre il neonato Esercito
Nazionale Libico (forte di centinaia di soldati e di mezzi militari)
portava avanti attacchi cruenti contro gli islamisti, Ansar al-Sharia in
primis.
In mezzo la crisi governativa, con due premier che si
contendevano lo scranno di primo ministro e la Corte Costituzionale che
definiva illegittima la nomina dell’islamista Maiteg. Il
businessman, vicino alla Fratellanza Musulmana, si è fatto da parte il
10 giugno, con il plauso della comunità internazionale che, dopo aver
gettato nel caos il Paese, chiede oggi stabilità e riconciliazione. A
contrapporsi a Maiteg era il precedente primo ministro, Abdullah al
Thani, dimessosi ad aprile, ma in prima fila contro la nomina
dell’avversario.
E oggi si torna alle elezioni: per evitare ulteriori settarismi politici, si
presentano solo candidati indipendenti e non rappresentanti di partito
per un parlamento che conta 200 seggi. Circa 1.600 i candidati. Il
timore - fondato - è quello di una bassissima partecipazione della
popolazione (nel 2012 si registrarono nelle liste elettorali
quasi 3 milioni di libici, stavolta sono circa 1,5 milioni). Tripoli è
in stallo, con l’assemblea costituente ancora al lavoro sul testo della
nuova costituzione che non ha ancora definito il sistema politico
libico. L’obiettivo del voto, la formazione di un governo forte in grado
di affrontare sia la crisi economica ed energetica sia le milizie armate
e le tribù che sostennero la deposizione di Gheddafi. I centri
di potere sorti in Libia dopo la scomparsa del pugno di ferro del
colonnello sono diversi e pericolosi: tribù, milizie armate, Fratelli
Musulmani, soggetti in grado di controllare fette di Paese e le sue
ricchezze petrolifere, come chiaramente dimostrato in Cirenaica:
pozzi di petrolio occupati dalle milizie e tentativi di vendita di
greggio all’estero dai porti del Paese sotto il controllo dei miliziani
anti-Tripoli.
I timori serpeggiano anche tra gli internazionali di stanza in Libia:
la Turchia ha evacuato in questi giorni centinaia di suoi cittadini,
dopo le minacce contro Ankara e Doha sbandierate dall’ex generale
Haftar.
A preoccupare oggi, a tre anni dalla caduta di Gheddafi, è la
condizione politica ed economica di un Paese nel caos. Il governo figlio
dell’attacco militare della NATO si sta dimostrando incapace di
ricostruire l’economia libica e di disarmare tutte quelle milizie che
nel 2011 fecero cadere il colonnello: nessuno intende
abbandonare le armi e oggi si stima che per il Paese girino 16 milioni
di pistole e fucili, su una popolazione totale di 6 milioni di persone. A
ciò si aggiunge la storica divisione tra Tripolitania e Cirenaica, con
Bengasi che punta con forza all’autonomia dal potere centrale.
Ad operare ex milizie oggi dichiaratesi “governo indipendente”,
attive soprattutto in campo energetico: nell’ultimo anno i gruppi
indipendentisti hanno occupato porti e pozzi di petrolio, impedendo
l’esportazione del greggio all’estero, principale fonte di entrata del
Paese. Oggi la produzione è crollata a 165mila barili al
giorno, contro il milione e mezzo del 2012. Gli investitori esteri
scappano e le compagnie petrolifere preferiscono evitare un Paese nel
caos, senza forze di polizia coese e un governo instabile, il
cui premier viene sostituito a intervalli quasi regolari, senza una
costituzione né istituzioni in grado di guidare la ricostruzione.
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