La linea adottata da Israele è quella del basso profilo ma dietro le
quinte della diplomazia ufficiale la soddisfazione è incontenibile.
Quando venerdì scorso la petroliera liberiana «Altai»
ha scaricato nel porto di Ashkelon il milione di barili di petrolio
curdo che aveva a bordo, i dirigenti israeliani hanno intravisto
all’orizzonte quel nuovo Medio Oriente che sognano (e al quale lavorano)
da anni. L’offensiva dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante
e dei suoi alleati, ha offerto opportunità uniche ai curdi iracheni che
hanno prontamente approfittato del crollo dell’esercito governativo.
Consapevoli della debolezza del premier Nour al Maliki, i peshmerga
della regione autonoma (Krg) hanno preso il controllo di Kirkuk (che non
intendono restituire in alcun caso) anche allo scopo di sganciare da
Baghdad la produzione, l’esportazione e la vendita del petrolio estratto
nel Kurdistan e nelle aree vicine: di 250mila barili al giorno che potrebbero diventare 400mila nel giro di qualche mese.
E Israele sembra il partner ideale per le prove di «separazione netta»
da Baghdad, in virtù di una lunga storia di cooperazione (segreta e alla
luce del sole) tra i curdi dell’Iraq e i governi dello Stato ebraico.
«Le vendite di petrolio curdo al nostro paese sono facilitate dal fatto
che Israele è più libero rispetto a molti altri Stati nelle relazioni
economiche con Erbil, non avendo mai sottoscritto intese e accordi con
l’Iraq», spiega al manifesto l’analista Gallia Lindenstrauss
dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv.
Il petrolio del Kurdistan iracheno già da alcuni mesi viene
trasferito al porto turco di Ceyhan nonostante le proteste di Baghdad. A
maggio i curdi hanno preso in leasing due petroliere e, dopo averle
caricate a Ceyhan, si sono messi in cerca di acquirenti. Diversi paesi
hanno rifiutato il greggio per non violare gli accordi internazionali o
per motivi politici. E alla fine il petrolio è arrivato ad Ashkelon.
Nessuno però può escludere l’esistenza di un accordo raggiunto in
anticipo da «compagnie private» israeliane con il Krg. In ogni caso
l’accaduto non è destinato a rimanere un episodio isolato. In
questi giorni tutti sono impegnati in uno scontato gioco delle parti. Il
ministero del petrolio di Baghdad ha condannato la vendita del greggio.
Erbil ha negato di avere portato l’oro nero a Israele. Tel Aviv ha
detto di non conoscere tutti i particolari della vicenda. «Noi non commentiamo l’origine del greggio importato dalle raffinerie private», ha detto il ministero israeliano dell’energia.
Il governo Netanyahu spera in una nuova stagione di rapporti speciali
con i curdi. L’analista Lindestrauss spiega che «Israele appoggia in
Medio Oriente le aspirazioni delle minoranze non arabe e, in linea con
questo atteggiamento, ha stabilito le sue relazioni con i curdi
iracheni». In poche parole a Tel Aviv non dispiacerebbe vedere
una frantumazione dell’Iraq in più «Stati» – Bassora, Baghdad e Mosul – e
il distacco delle regioni sciite del sud dal nord sunnita e curdo. Gli
israeliani già assistono, molto interessati, alla frantumazione in atto
della Siria. Sviluppi che senza dubbio indeboliscono l’influenza
iraniana nella regione.
In attesa di capire come evolverà la situazione sul terreno, Israele
si tiene stretti i contatti politici ed economici riavviati nel
Kurdistan (e nel resto dell’Iraq del dopo Saddam Hussein), più
sviluppati rispetto quelli già avuti in passato grazie anche alla
nutrita comunità degli ebrei curdi. Negli anni passati sono
circolate insistenti informazioni sulla presenza di uomini dei servizi
segreti israeliani in aree del Kurdistan iracheno a ridosso del confine
con la Siria. E anche di imprese israeliane che, con la copertura di
aziende locali, operano in Iraq. L’istituto israeliano per il
commercio estero nel 2010 calcolava in 100 milioni di dollari, nel
triennio successivo, il volume delle esportazioni indirette (attraverso
la Giordania e con etichette arabe) da Israele verso l’Iraq. È giunta
l’ora del petrolio.
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