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24/06/2014

La guerra alle porte e gli occhi sull'ombelico

La guerra torna ad essere possibile, un orizzonte realistico. Anche per quelli che al massimo il “devi morire” lo gridano seduti in poltrona, con gli occhi alla partita sullo schermo.

Se un merito va riconosciuto all'editoriale di Franco Venturini, sul Corriere della Sera di oggi, è quello di reinserire il “discorso pubblico” nazionale all'interno di un contesto globale in rapidissima mutazione. Di più. Una mutazione che ha tutte le caratteristiche del caos, senza alcun “nuovo ordine” individuabile. E di richiamare dunque l'attenzione dei lettori affinché sollevino il prima possibile gli occhi dal proprio ombelico.

I suoi meriti finiscono qui, perché naturalmente il discorso del Corriere è un discorso imperialista abbastanza classico, seppure dalla particolare angolatura di un paese-servo: della strategia globale statunitense e della costruzione dell'Unione Europea. Due processi che non è detto proseguano in relativo accordo, oltretutto, visto che gli “interessi vitali” delle due aree non sono affatto coincidenti. Per citarne uno solo: l'approvvigionamento energetico dell'Europa si regge da 70 anni sulle buone relazioni con la Russia e partner affidabili nel Nordafrica e in Medio Oriente. Due condizioni scomparse negli ultimi anni e mesi, “grazie” all'azione invasiva degli Usa e ai pruriti imperialistici un po' suicidi della stessa Unione Europea (Francia e Gran Bretagna in testa).

Sarebbe facile – ma anche un po' inutile – rammentare a Venturini e al Corriere che “il disordine” alle nostre porte è stato creato dall'illusione imperiale che si potessero distruggere i nemici di media potenza (Gheddafi, Saddam, Assad, domani l'Iran sciita) senza doversi affatto preoccupare di gestire e riempire il vuoto che così si andava a creare. L'illusione, insomma, che nel mondo globalizzato e interconnesso si potesse ancora ragionare in termini di “divide et impera” da antichi romani, come se lo sminuzzamento del nemico in tanti frammenti impazziti (basti guardare ai tre paesi arabi citati) ponesse automaticamente al riparo “l'Occidente” da ogni rischio reale.

Paradossalmente, questo ragionamento ha una base reale e una fantastica. La base reale sta nel fatto che gli interessi dominanti – quelli della “classe dirigente” in senso lato di Stati Uniti e Unione Europea, ovvero del capitale multinazionale e del capitale finanziario – sono effettivamente al riparo da seri contraccolpi sferrabili da frammenti in lotta fra loro. Non così le società (le popolazioni civili d'Europa e d'America), permeabili a qualsiasi suggestione in tempi di crisi globale e multietniche anche al di là del programmato (i flussi migratori attualmente indirizzati verso le metropoli occidentali sono molto superiori a quelli utilizzati nei decenni scorsi per abbattere i salari occidentali).

Ma se questo livello di “preoccupazioni” riguarda soprattutto il possibile “contagio” derivante dal rientro dei combattenti islamisti con residenza europea attualmente impegnati in Iraq, Libia, Siria – un livello da “ordine pubblico”, non esattamente da guerra – tutt'altro discorso va fatto invece sull'escalation che l'imperialismo statunitense ed “europeo unito” hanno messo in moto contro la Russia e – tramite il Giappone – verso la Cina.

In tutti i casi, si tratta di feedback indesiderati di azioni “imperiali” aggressive (basta guardare la carta geografica e storica dell'Europa orientale per constatare che la Russia sta arretrando da 25 anni, al punto che ora sta praticamente difendendo i propri confini, non più quelli degli ex “stati cuscinetto”).

Inutile, insomma, rimproverare ai media mainstream di non saper cogliere i lati sgradevoli di quanto vanno combinando i propri datori di lavoro. Più utile sarebbe invece sentire cosa hanno da dire in proposito i tanti esponenti della “sinistra” che limitano il proprio orizzonte "politico-strategico" al prossimo cartello elettorale da contrattare oppure al prossimo “evento” da contestare.

Curioso, non è vero, che soprattutto in questa sinistra ex “no global”, ancora immersa nelle fantasie anni '90, si sia persa totalmente la capacità di guardare dall'alto – non “localmente”, insomma – anche la propria situazione? Ricordate quello slogan di successo “pensare globalmente, agire localmente”? Beh, dopo venti anni constatiamo che si è convertito praticamente nell'esatto opposto, sul fronte del “pensare”. L'”agire”, infatti, sembra ormai superiore alle sue forze.

Anche noi invitiamo a sollevare gli occhi dall'ombelico. Prima che la guerra ci arrivi addosso, ancora una volta, "imprevista". Potremmo forse persino cominciare a ragionare sul serio di politica...

*****

L'editorale di Franco Venturini:

Il disordine che ignoriamo

È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.

Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.

A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?

In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.

Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.

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