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28/06/2014

PUNTO E A CAPO 3 La destra americana l’Iraq e la memoria

John McCain e George W. Bush,

La memoria delle cose che manca agli Stati Uniti. Michele Marsonet la storia la frequenta assiduamente e oggi ripercorre delle follie strategiche che portano al caos iracheno. Prima accadde in Afghanistan, per tacere del Vietnam. Ex amici armati e allevati in casa che diventano i nuovi nemici.

Forse alcuni rammentano che il senatore John McCain fu il candidato repubblicano sconfitto, nelle elezioni presidenziali del 2008, da Barack Obama. Più difficile ricordare che otto anni prima, nel 2000, venne invece battuto da George W. Bush nelle primarie del Grand Old Party.

E’ noto inoltre come eroe di guerra. Pilota della US Navy, nel 1967 il suo Skyhawk fu centrato da un missile della contraerea durante un bombardamento su Hanoi. Catturato dai nordvietnamiti trascorse parecchi anni nella famigerata prigione di Hoa Lo (detta anche “Hanoi Hilton”), dalla quale uscì per rientrare in patria solo nel 1973. Gli abusi subiti durante la prigionia, poi raccontati in un libro, lo resero ovviamente celebre spianandogli la strada della carriera politica.

Va notato che McCain è sì un conservatore, ma ha pure la fama di “battitore libero”. In più occasioni non ha esitato a criticare i presidenti del suo stesso partito – quello repubblicano – sulla condotta della politica estera. E’ diventato sempre più critico, ad esempio, circa la conduzione delle operazioni belliche in Irak, e si è schierato nettamente contro gli abusi sui prigionieri di guerra, memore dell’esperienza da lui stesso vissuta in Vietnam.

Ultimamente il senatore ha però riassunto le vesti di falco a tutto tondo. Notissimo il suo discorso nella Piazza Maidan di Kiev dove promise agli insorti ucraini il pieno appoggio occidentale contribuendo a infiammare gli animi (mentre, a posteriori, è evidente che occorreva calmarli come notò subito Henry Kissinger).

Ora si apprende che nel corso di alcune interviste alla CNN McCain ha ringraziato in modo molto caloroso l’Arabia Saudita e il Qatar per l’appoggio di ogni tipo fornito alle forze anti-Assad in Siria. Gli elogi erano soprattutto rivolti al principe Bandar bin Sultan, per lungo tempo capo dei servizi segreti sauditi.

Il problema è che, poco dopo tali interviste, Bandar è stato rimosso dall’incarico dal re Abdullah. Evidente, quindi, che qualcosa non funzionava. Partiti con l’intento di aiutare i ribelli siriani moderati (e almeno ufficialmente filo-occidentali), i sauditi – e con loro il Qatar – hanno poi finito con l’armare le milizie qaediste.

Re Abdullah Saud di Arabia Saudita

E non è finita. A quanto pare i due Paesi arabi hanno pure favorito l’ascesa dell’ISIS (o ISIL), la milizia fondamentalista che in poco tempo ha sbaragliato l’esercito regolare irakeno addestrato dagli USA, spadroneggiando in un territorio assai vasto a cavallo tra Irak e Siria.

L’intento è quello di dar vita a un vecchio sogno: la rifondazione del grande califfato islamico (e, se continuano così, ci riusciranno). Degno di nota un altro fatto. Finora si riteneva che il Kurdistan fosse al sicuro poiché, a detta degli esperti, i celebri peshmerga curdi avevano sigillato i loro confini “senza lasciar passare neppure uno spillo”. Pare sia una pia illusione. I governanti del Kurdistan sono preoccupati, mentre giunge notizia di bambini curdi sequestrati dagli jihadisti per essere addestrati alla guerra santa.

Insomma un caos senza pari, a confronto del quale persino l’indubbia barbarie del dittatore Saddam Hussein impallidisce. Tanti sono gli interrogativi cui è difficile dare risposte precise.

Al-Qaeda venne all’inizio supportata dagli americani in funzione anti-sovietica, e la sua affinità almeno spirituale con il wahabismo, l’interpretazione dell’Islam adottata da Riad, non è certo un mistero. Come già in Afghanistan (per tacere del Vietnam) gli americani si ritrovano adesso a combattere nemici che utilizzano armi made in USA, abbandonate sul terreno da eserciti in fuga e da loro stessi addestrati.

Chissà se il senatore McCain – e altri come lui – lo ha capito. A giudicare da come si comporta di direbbe proprio di no. E questo è un bel guaio, che non coinvolge soltanto gli Stati Uniti ma l’intero Occidente.

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