24/06/2014
Kerry con l'Iraq. Ma quae?
Califfato o meno, i miliziani jihadisti hanno varcato la frontiera. La presa di città chiave al confine e della comunità irachena di Al Qaim, a pochi chilometri dal territorio siriano, segna una svolta: ieri i villaggi siriani di Maalal e Eksar, provincia di Aleppo, hanno assistito al passaggio dei qaedisti a bordo di veicoli militari Humvees, jeep americane in dotazione all’esercito iracheno. L’Isil ha razziato basi dell’esercito e caserme della polizia, raccogliendo ingenti quantità di armamenti. Ora sono in Siria, trasportati con poche difficoltà dal confine ormai controllato dai miliziani dopo la fuga delle truppe. Gli islamisti godono di una libertà di movimento quasi illimitata nelle province occupate – Anbar, Salah-a-din, Diyala e Ninawa – e il loro potenziale militare e strategico si è drammaticamente moltiplicato.
Nelle stesse ore l’Isil conquistava definitivamente la comunità sciita di Tal Afar e il suo aeroporto e altre città nella provincia sunnita di Anbar, ad ovest: dopo Al Qaim e Rawah, è caduta anche Anah. A preoccupare, però, non è solo l’avanzata verso la Siria: ora a disturbare il sonno del premier Maliki c’è anche il confine giordano. Ieri i miliziani hanno occupato due valichi di frontiera, Walid e Turaibil. Il primo, a poca distanza dalla Giordania, è passaggio verso la Siria; il secondo verso Amman. Punti fondamentali per il Siil che si garantisce territori di vitale importanza per il passaggio di armi e miliziani e un collegamento chiave con i paesi vicini. Amman si premura e dispiega le truppe al confine.
Il rafforzamento delle posizioni a occidente fa parlare di una rinuncia alla conquista di Baghdad, con l’Isil più interessato alle ricchezze petrolifere a nord e alla creazione di un califfato a cavallo tra Siria e Iraq. Ma la marcia sulla capitale, minacciata la scorsa settimana dai leader islamisti, è solo rimandata: la presa di Baghdad consentirebbe lo smantellamento definitivo dello Stato iracheno e il raggiungimento dell’obiettivo iniziale. L’occupazione della città di Rutba, domenica, ha stabilizzato ulteriormente la posizione islamista, perché punto di collegamento diretto tra Baghdad e i due confini con la Siria, Walid, e con la Giordania, Turaibil.
E mentre il califfato prende forma, il presidente Usa Obama ha inviato il segretario di Stato Kerry in Medio Oriente per discutere con le leadership arabe delle misure da prendere contro i jihadisti. Domenica Kerry ha fatto visita ai presidenti egiziano e giordano e ieri mattina è volato a Baghdad, dove ha incontrato leader sunniti e curdi e il premier Maliki, target in questi giorni delle pressioni più o meno palesi dell’amministrazione di Washington. La Casa Bianca, ancora tentennante sull’opzione dei droni, punta sulla diplomazia: Kerry ha chiesto ad un primo ministro non certo conciliatore riforme politiche immediate per uscire dalla crisi e promesso «sostegno intenso alle forze militari irachene». Kerry ha aggiunto che la prossima settimana i leader iracheni si incontreranno per formare un governo di unità nazionale a cui prendano parte sciiti, sunniti e curdi. L’obiettivo è riavvicinare al potere centrale quelle comunità – la sunnita in primis – discriminate per otto anni dal governo. Quelle comunità, unite alle milizie baathiste ancora fedeli a Saddam, sono oggi terreno di coltura per il progetto dell’Isil: sono tanti i sunniti, anche dentro Baghdad, che vedono nell’avanzamento islamista l’occasione per riprendersi il paese a scapito degli sciiti e per questo si uniscono alle file qaediste o ne sostengono indirettamente le azioni, convinti che, una volta travolto l’attuale governo, ne potranno tornare alla guida.
Una prospettiva che rende sempre più lontana l’eventualità di una conciliazione delle opposte spinte settarie. Ogni comunità pare voler lavorare per i propri interessi. Sul piano politico ciò si traduce nella debolezza della coalizione “Stato della Legge” guidata del premier: i pochi seggi conquistati a fine marzo (92 su 328) sono insufficienti ad un esecutivo di maggioranza e la caccia all’alleato per ora non ha dato frutti, né all’interno della frammentata compagine sunnita né nello schieramento “amico” sciita, a partire dal blocco dell’avversario Moqdata Al Sadr.
Dopo il Medio Oriente, Kerry si presenterà a Bruxelles per un meeting con NATO e UE, per sondare il terreno di un’eventuale operazione congiunta. Il segretario dell’Alleanza Atlantica, Anders Rasmussen, fin dai primi giorni di offensiva islamista, aveva chiarito la posizione della NATO: nessun intervento in Iraq. Obama, dal canto suo, teme un contagio rapido e incontrollabile dei settarismi regionali, «una minaccia di medio e lungo termine che destabilizza l’Iraq e i paesi vicini». Da qui, spiegano da Washington, la necessità di coinvolgere le leadership arabe nella battaglia contro il terrorismo. Ma se Kerry viene spedito al Cairo e ad Amman, sarebbe forse più utile mandarlo a Riyadh o a Doha: il ruolo di Arabia Saudita e Qatar nella tragedia irachena e, prima, in quella siriana è chiaro. A far crescere a dismisura il Siil e altri gruppi islamisti di opposizione al presidente Bashar al-Assad sono stati i soldi, le reti di comunicazione e gli armamenti piovuti dalle casse delle petromonarchie del Golfo.
di Chiara Cruciati per Il Manifesto
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