“Essere costretti a diventare filosofi ad appena ventotto anni non è davvero una cosa facile e per l’artista è più difficile che per chiunque altro” (L.von Beethoven, “Lettera del 1802″). Quale era la filosofia di Beethoven? Pur non avendoci lasciato nessun testo propriamente filosofico, la possiamo dedurre sia dai suoi “quaderni di conversazione”(sui quali scriveva per comunicare con gli interlocutori) sia, soprattutto, dalla sua musica. La filosofia di Beethoven è un metodo dialettico per la composizione musicale, e, più in generale, un pensiero morale votato alla libertà e ad un senso del dovere di ascendenza kantiana e fichtiana. Nella filosofia di Fichte, l’ “Io pone il Non-Io, nell’ Io, per essere Io”, per compiere la sua natura morale. Il Non-Io di Beethoven fu la sua sordità: contro di essa si scaglia nel testamento di Heiligenstadt, dove decide – come se glielo imponesse un io devo kantiano – “di reagire alla disperazione e affrontare l’avverso destino”. La lotta che Beethoven ingaggia individualmente contro la sua sordità, contro una natura avversa, è la stessa lotta che deve ingaggiare collettivamente l’umanità intera contro la “natura matrigna” nella filosofia del Leopardi. Beethoven voleva per se stesso ciò che, coerentemente, auspicava per tutti gli uomini: entusiasta delle idee rivoluzionarie, egli “voleva che tutti concorressero al governo dello Stato […]. Voleva per la Francia il suffragio universale, e sperava che Napoleone l’avrebbe concesso, gettando così le basi della felicità del genere umano”, “voleva a tutti i costi il possesso di una piena libertà, uguale per tutti – unica condizione di possibilità per l’effettiva liberazione di una vera e rinnovata umanità”.
Qual è dunque, limitandoci all’analisi del quarto movimento della Sinfonia n. 9 op. 125 in re maggiore, lo svolgersi dialettico di questi contrasti all’interno della partitura beethoveniana?
Molti studiosi associano Beethoven ad
Hegel. Il paragone è sicuramente fondato, ma, se lo si svolge nei
dettagli, incontriamo delle difficoltà: in generale le sintesi
beethoveniane rispetto a quelle hegeliane sono troppo labili, troppo
deboli. In Hegel troviamo sintesi simili solo nella seconda parte del Lineamenti di filosofia del diritto, dedicata alla Moralità. La prima sezione di questa parte, Il proponimento e la responsabilità, contrappone soggetto e oggettività (L’oggettività
– non meglio precisata – è da intendere come sinonimo di collettività:
lo scontro è quindi tra un singolo ed una molteplicità che lo accusa, a
mo’ di tribunale, per le conseguenze, anche solo accidentali, delle sue
azioni.) “sulla base del confronto tra il progetto dell’azione e
l’azione effettivamente compiuta”. Entrambe le parti possono avanzare
dei diritti, perché “l’azione, intesa come il fine posto nell’ esteriorità,
è data in preda alle potenze esteriori, le quali vi congiungono
tutt’altro da quel ch’essa è per sé, e la spingono a conseguenze remote,
estranee”. “La logica di questa contrapposizione è quella di una
dialettica senza composizione”: entrambi gli argomenti, del soggetto che
pretende di far valere i suoi diritti, e dell’oggettività che li
contesta, sono validi. L’incompiutezza di questa sintesi è solo
temporanea; nella sfera dell’ Eticità si renderanno finalmente disponibili gli strumenti speculativi per ricomporre la suddetta dicotomia: nello Stato
verranno sanate tutte le contraddizioni. Le sintesi “deboli” in Hegel
sono tali solo perché sono temporanee, prima o poi giunge sempre
puntuale la sintesi conciliatoria. E’ lo stesso Beethoven a suggerirci
un modello dialettico più aspro nelle sue contraddizioni; il riferimento
che troviamo nei suoi appunti è a “due forze che hanno un uguale grado
di certezza, di unitarietà e nello stesso tempo sono parimenti
originarie e universali, ossia le forze di repulsione e di
attrazione”(Ludwig Van Beethoven, Pensieri e diari, in Autobiografia di un genio,
op. cit., pag. 126). Mila interpreta così questa coppia di forze: “I
due elementi fondamentali dell’arte beethoveniana sono il dolore della
vita, risentito da un animo che si fa eco dell’intera umanità, e
l’energia indomabile nella disperata risoluzione di affrontarlo[…]. Nel
grande periodo della maturità che s’inizia nel 1800 e che coincide con
le prime avvisaglie della sordità, i due elementi varcano i limiti nei
quali erano dapprima isolati, ed entrano in fecondo contrasto”. Il
modello dialettico, che Beethoven espone in termini shellinghiani, è
quindi un modello ispirato ad una struttura duale che rimanda solo
ipoteticamente ad un terzo elemento mediatore: il genio di Bonn non nega
esplicitamente la possibilità di una sintesi. Basandoci fedelmente
sulle sue parole interpreteremo il suo pensiero in termini di tesi, antitesi, negazione, negazione della negazione, senza nominare la sintesi. Se abbandoniamo il lessico della Naturalphilosophie
riferendoci alle leggi della fisica, troviamo, ad esempio nel campo
della meccanica, una coppia di forze che potrebbero esser descritte con
le parole del musicista filosofo: azione e reazione.
Come direbbe Newton “Ad ogni azione corrisponde una reazione eguale e
contraria: ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e
dirette verso parti opposte: F(AB)= – F(BA)”. Anche nei fenomeni
termodinamici, ad una “azione” corrisponde sempre una “reazione
contraria”, anche se non “uguale”: non possiamo raffreddare un corpo
senza riscaldarne un altro, non possiamo generare localmente ordine senza causare disordine
nell’universo. Entropia/neg-entropia, azione/reazione, e,
concettualmente, attrazione/repulsione, partecipano della stessa
dialettica duale.
Beethoven è costretto dalla natura a
vivere nella totale sordità: non può distinguere suono e silenzio, non
può fare ordine tra ciò che è e ciò che non-è,
costretto a vivere nel simmetrico disordine in cui qualsiasi cosa è
uguale a qualsiasi altra – per dirla con Hegel come in una “notte in cui
tutte le vacche sono nere”. Ma l’uomo, come Beethoven sa, deve (re)agire contro il Non-Io della natura, deve
compiere la sua natura morale: deve produrre ordine. Ecco che il
geniale musicista, pur di restare collegato alla freccia del tempo della
specie umana, diventa filosofo facendo ordine con il pensiero. Le note
non hanno più un suono, perché ormai il suono è per lui identico al
silenzio, e viceversa, ma nella mente di Beethoven è vivo il ricordo di
quella gioia, tutta umana, di ascoltare frasi asimmetriche, terzine
contro duine, accenti; queste esperienze sono troppo radicate per esser
spazzate via dal caos. Attraverso la speculazione e la cultura, proprio
come il dotto fichtiano, Beethoven compie se stesso come uomo. Di più:
Beethoven non si accontenta della sintesi hegeliana dello Stato
– appena elaborata un anno prima (1821) – sa che la dialettica
uomo-natura, cioè ordine-disordine, non si fermerà mai a nessuna
“sintesi”: compiendo se stesso come uomo egli compie se stesso come
specie umana, il quarto movimento della Nona è la sua Ginestra, i cori di questa sinfonia sono la “social catena”.
Il tema dell’ Inno alla Gioia proposto inizialmente dagli oboi è la negazione della negazione dei temi proposti fino a quel momento – l’Inno
è quindi la negazione di tutte quelle negazioni con i quali i bassi
hanno a loro volta negato i precedenti temi citati rispettivamente dal
primo, dal secondo, e dal terzo movimento della sinfonia. Non ci sono
sintesi, ci sono solo momenti di un infinito cammino teso alla ricerca
di un compimento mai definitivo dell’ Io, dell’intera umanità. Una
musica che si lascia decifrare e segmentare con tale precisione non può
che essere una musica ordinata. La contrapposizione tra tesi ed
antitesi, cioè tra temi e “anti-temi” musicali, è chiara, asimmetrica,
neg-entropica. La dialettica tra violini e fiati da una parte, e bassi
dall’altra, è una contraddizione interna al movimento verso l’ordine; il
caos è invece rappresentato dalle battute 1-8 e 18-25 contro le quali i
bassi tentano una coraggiosa resistenza: sarà l’ingresso del tema dell’Inno
a negare temporaneamente quel disordine. Successivamente, elementi
“disordinanti” riescono ad insediarsi, come un cavallo di Troia, anche
nell’esposizione orchestrale del tema fino a rompere questa armonia per
riproporre il caos nelle battute 209-216. Il tema dell’Inno, ha prodotto, negandosi,
un disordine ancora più tenace del primo; le battute 209-216 sono una
riesposizione delle battute 1-8 – per dirla con Hegel, sono l’ “immane
potenza del negativo”.
Ora, quindi, serve qualcos’altro per
negare il nuovo disordine: la voce umana irrompe manifestando tutta la
forza dell’uomo con il linguaggio, la sua “coscienza reale” (Friedrich
Engels, Storia e lingua dei Germani: scritti filologici, Roma,
Editori riuniti 1974). Quella che era stata la dialettica, interna al
movimento di tendenza all’ordine, tra i bassi ed il resto
dell’orchestra, si riproduce, su un nuovo livello, tra coro e voce
solista, ma in questo caso è meno aspra: il coro non è quello delle
tragedie greche che mostrava all’eroe la faccia nascosta delle sue
azioni, è un coro che collabora fraternamente con il solista – spesso il
coro ripete gli ultimi quattro versi della strofa, versi che il solista
ha appena finito di cantare.
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