Come riportato da Luigi Pandolfi, dal
2008 al 2013, mentre ingenti patrimoni privati venivano salvati con
centinaia di miliardi di euro pubblici, i PIIGS operavano tagli strutturali
a welfare e sanità per 230 miliardi di Euro, un’enorme redistribuzione
di ricchezza diretta da Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario
Internazionale.
Questa Europa, come dice Colin Crouch,[1] è il trionfo del liberismo reale,
che “produce un’economia politicizzata molto distante da ciò che gli
economisti intendono per economia liberale”. Gruppi di interesse privati
accentrano capitale attraverso l’attività di lobbying, concentrando la
produzione nel centro e distruggendo capacità produttiva “in eccesso”
nelle aree periferiche, depredandone le risorse ambientali e creando
disoccupazione. Emiliano Brancaccio ha spiegato il processo di germanizzazione dei capitali (o mezzogiornificazione dell’Europa) sottolineando come anche aziende competitive possano essere spazzate via in questo processo di desertificazione industriale.
Un esempio attualissimo nel settore degli acciai è la AST: unico
sito italiano di acciai speciali, uno dei più produttivi al mondo,
stava chiudendo non per mancanza di commesse ma perché la finlandese
Outokumpu è stata costretta a vendere gli impianti alla tedesca Thyssen,
avendo l’Antitrust deciso che in caso contrario avrebbe ottenuto una
posizione dominante. Prima dell’intervento del governo, che ha mediato
l’accordo con i sindacati, Thyssen aveva deciso di concentrare la
produzione in Germania, licenziando 2600 lavoratori in Italia. Si
sarebbe dovuto permettere che AST fallisse?
La Germania non ha lasciato fallire
Commerzbank, stanziando 14 miliardi di euro pubblici a fondo perduto,
così come non ha lasciato fallire Opel. La KFW tedesca – la nostra Cassa
Depositi e Prestiti – detiene il 31% di Deutsche Telekom. Nel silenzio
assoluto è passato anche il salvataggio di Peugeot, nazionalizzata dallo
stato francese con l’importante contributo di quello cinese e la
benedizione della Commissione Europea. Il concetto di “libera
concorrenza” gradita agli oligopoli europei è dunque molto lontano dal laissez faire.
Dal rapporto SVIMEZ
(2014) emerge uno scenario desolante. Una la ricetta: investimenti
pubblici, gli unici possibili quando i privati non mettono sul piatto un
solo euro di investimenti anche se i tassi di interesse sono a zero. In
Germania, a Duisburg, è stato possibile bonificare i territori e
riconvertire un impianto siderurgico da 9 milioni di tonnellate. Perché
in Italia non si può?
Chi scrive è consapevole che a Taranto
il problema non è solo economico: è centrale la tutela dell’ambiente e,
soprattutto, della salute. Tuttavia, come già sottolineato, la
produzione di acciaio non comporta necessariamente le esternalità
negative prodotte dalla gestione Riva, conseguenza della carenza di
investimenti. Ciò impone un’ulteriore osservazione: le stime che stiamo
per fornire si basano su una proiezione della situazione attuale. In
presenza di investimenti, e relativi effetti moltiplicativi, salvare
ILVA porterebbe benefici ben maggiori di quelli qui stimati.
Alla luce delle cifre in gioco,
eventuali sanzioni per aiuti di Stato appaiono ridicole. L’Italia ha 102
procedure di infrazione aperte nel 2014, contro una sessantina di
Germania e Francia. Nel solo mese di settembre sono apparsi 39 pareri
motivati e 4 deferimenti alla Corte di Giustizia, mentre le decisioni
totali della Commissione sono state 147, a dimostrare la facilità con
cui i paesi europei spesso decidano di non rispettare le regole: si
tratta di una scelta, e di una scelta politica.
Prima di entrare nel dettaglio, è utile fare alcune premesse.
In primo luogo, l’analisi che segue si
basa sulle tavole Input-Output relative al 2010 – le più recenti
pubblicate dall’Istat – e su dati aggiuntivi tra cui il bilancio di ILVA
dello stesso anno. Da questi ultimi si evince che ILVA rappresenta
circa l’8% dell’intero settore metallurgico nazionale; poiché il Pil di
quest’ultimo ammonta allo 0.59% del totale – oltre 9,5 miliardi di euro –
si può stimare che ILVA partecipa alla produzione del reddito nazionale
nella misura dello 0.05% circa – oltre 750 milioni di euro.
Questi numeri – già rilevanti,
considerando le stime di crescita per il 2015 – non bastano però a
misurare l’effetto sul sistema produttivo italiano di un’eventuale
chiusura di ILVA, che non solo produce acciaio utilizzato come input da
altre industrie manifatturiere, ma è a sua volta a capo di un indotto
che inevitabilmente si contrarrebbe. Se è impossibile quantificare
esattamente i due effetti, se ne può stimare l’ordine di grandezza sulla
base della struttura produttiva esistente.
Considerando il peso di ILVA nel
comparto e il fatto che il 16% della sua produzione è destinato
all’esportazione (contro una media del 37%), si stima che ILVA
contribuisce per il 4.67% alla produzione della domanda finale del
comparto. In termini di occupazione (Istat, occupazione per branca) lo
stabilimento di Taranto occupa circa 9000 unità full time equivalent. Per misurare gli effetti indiretti, si deve però considerare l’intero subsistema; alle 9000 unità impiegate direttamente si devono aggiungere altre 16000 circa, di cui 2200 nel comparto Commercio all’ingrosso; oltre 1600 nel settore Trasporto terrestre; quasi 1300 in Attività legali e contabilità; quasi 1200 in Servizi di investigazione, vigilanza, amministrativi; oltre 1000 nella Fabbricazione di prodotti in metallo.
Per avere un’idea più precisa degli
effetti di lungo periodo, è poi possibile stimare (sebbene in modo
approssimativo) le tavole Input-Output che potrebbero emergere a seguito
della chiusura di ILVA: ciò condurrebbe a una perdita di Pil
nell’ordine dello 0.24%, cioè quasi 4 miliardi di euro al 2013. La
perdita di posti di lavoro ammonterebbe invece a circa 50.000 unità full time equivalent, oltre 5 volte l’occupazione diretta dello stabilimento di Taranto.
Veniamo infine alla bilancia
commerciale. In base alla stima sopra riportata, le importazioni
intermedie aumenterebbero di circa 2 miliardi e 385 mila euro. Le
esportazioni, per contro, diminuirebbero di poco più di un miliardo di
euro. Immaginando che l’acciaio importato abbia lo stesso prezzo di
quello prodotto da ILVA, la chiusura condurrebbe ad un deterioramento
della bilancia commerciale per circa 3,5 miliardi di euro.
Il Governo, e in particolare il
Ministero dello Sviluppo Economico, ha recentemente ventilato l’ipotesi
di applicare anche a Taranto il “modello Alitalia”: nazionalizzare
l’impresa, risanarla, e rivenderla presumibilmente a un gruppo
straniero. Chi scrive ritiene invece che sarebbe opportuno mantenere
ILVA sotto controllo pubblico. Per farlo, naturalmente, occorrerebbe un
progetto di politica industriale che punti al rilancio del sistema
produttivo italiano partendo, perché no, proprio da Taranto. Purtroppo,
sembra chiaro come un progetto del genere sia ben lontano dalle priorità
del Governo.
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