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28/12/2014

La nuova locomotiva Usa?

Marco Bertorello - Il Manifesto

Fino a qualche mese fa dovevamo fare come in Germania, ora come negli Usa. Gli Stati Uniti stanno diventando il nuovo modello della ripresa per le classi dirigenti dei paesi in crisi e non solo. È una necessità economica individuare il luogo che faccia da locomotiva. Cioè individuare quale sia il modello non solo da generalizzare, ma anche da cui trarre direttamente alimento per far ripartire la propria macchina economica. Questa settimana in America è stato reso noto che il terzo trimestre ha fatto registrare un +5% del Pil, quasi numeri cinesi. Questo dato fa considerare la crisi definitivamente alle spalle. Sarebbe, dunque, iniziata una facile discesa?
 

Per cantare vittoria andrebbe quantomeno valutata l'instabilità del quadro Usa, basti pensare che il primo trimestre del 2014 aveva ancora fatto registrare un -2.1%. Ma più importante sarebbe valutare il volume di interventi messi in campo e raffrontarlo con i risultati ottenuti. L'arma principale utilizzata dall'amministrazione americana è stata una politica monetaria espansiva, con la Fed che ha quadruplicato il proprio bilancio in pochi anni ed ha abbassato i tassi in maniera inusuale. A ciò vanno aggiunti i mega-interventi governativi a sostegno delle società «troppo grandi per fallire» e per ridare fiato a industria, mercato immobiliare e consumi. Una massa monetaria che ha sommerso l'economia Usa. Il crollo è stato scongiurato, la disoccupazione è tornata a diminuire, sono ripartiti investimenti e consumi. La ripresa però è andata fondandosi sempre più sul debito, se si pensa che quello statale ormai viaggia intorno al 106% in rapporto al Pil, e viene previsto in crescita, quantomeno per una previsione di aumento dei costi per interessi. Stiamo parlando del più grande debito pubblico al mondo in termini assoluti. 
Anche nella società abbiamo segnali di una ripresa dell'indebitamento, a partire da quello degli studenti che è raddoppiato in pochi anni.
 

L'altro aspetto preoccupante è il mercato del lavoro. I dati parlano di un assorbimento della disoccupazione, tornata al 5.8%, ma andrebbero analizzati i dati sul tasso di occupazione, sceso al 58% mentre nel 2000 era al 64.6% ed è in costante riduzione negli ultimi trent'anni. Ciò significa che la percentuale di disoccupati dichiarati diminuisce, ma aumentano gli individui che non cercano lavoro. Si parla di decine di milioni di persone. Per non dire di come sia in corso una trasformazione dell'occupazione, con un aumento di precari e di lavori a tempo parziale (sotto Obama, 7 nuovi posti di lavoro su 8 sarebbero part-time). Un quinto delle famiglie finisce per non avere al proprio interno neppure un reddito da lavoro. I dati sulle centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro che mensilmente vengono accolti con euforia, nascondono un mercato del lavoro asfittico, dove alla generazione del baby-boom degli anni Settanta che va in pensione non fa seguito nuova adeguata occupazione e dove si riducono possibilità e reddito per le nuove generazioni. Persino il già modesto sistema assistenziale e previdenziale americano rischia di risultare insostenibile a fronte di un aumento demografico non corrispondente.

La ripresa, dunque, appare al prezzo di una spesa a debito spropositata e ad oltranza, sbilanciata sul versante finanziario, con modeste ricadute sulle classi medio-basse. Ma soprattutto rischia di non essere sostenibile strutturalmente, se ancora poche settimane fa Obama chiedeva all'Europa di raccogliere il testimone della politica di stimolo monetario per il bene globale, se Paul Krugman dichiara che un prematuro rialzo dei tassi dopo l'abbandono del quantitative easing comporta «rischi enormi». Insomma l'Europa resta in crisi, il Giappone è in recessione, la Cina rallenta e il gigante americano cresce con il doping senza riuscire a trasformarsi in una vera e propria locomotiva. Anzi chiede ai vagoni di andare più veloci.


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