Mohammed Dahlan (a sinistra) e Abu Mazen quando erano alleati, foto di TARA TODRAS-WHITEHILL/REUTERS |
di Michele Giorgio - Il Manifesto
Giovedì migliaia di palestinesi sono scesi nelle strade di Gaza inneggiando al loro leader, Mohammed Dahlan, sotto processo in contumacia, urlando slogan contro Abu Mazen. Altre centinaia a Ramallah hanno sfidato le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese scandendo «Abu Mazen traditore», «Abu Mazen dittatore». Parole simili a quelle usate da Dahlan che qualche ora prima aveva attaccato a fondo il suo nemico e presidente palestinese che nel 2011, al termine di uno scontro con pochi precedenti ai vertici di Fatah, era riuscito a buttarlo fuori dal partito e poi a farlo condannare a due anni di carcere per diffamazione e, ora, a farlo processare per corruzione. Mentre i pro Dahlan giovedì sfilavano compatti, il presidente palestinese si affannava a raffreddare i toni dello scontro con gli Stati Uniti. Scontro in corso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove l’Amministrazione Obama ha ribadito che userà il veto per bloccare la possibile approvazione della risoluzione palestinese, presentata mercoledì sera dalla Giordania, che prevede un accordo di pace con Israele entro 12 mesi e il completamento del ritiro israeliano dalla Cisgiordania entro il 2017. «La nostra risoluzione ha lo scopo di definire una data per la fine dell’occupazione israeliana», ha spiegato Abu Mazen due giorni fa. «Siamo favorevoli – ha aggiunto – a una Conferenza internazionale sui negoziati ma questi non devono durare oltre un anno».
In corso non c’è solo la partita tra Abu Mazen e il premier israeliano Netanyahu, che si svolge ormai ogni giorno sui tavoli della diplomazia sparsi per il mondo. È cominciata infatti la corsa alla presidenza palestinese alla quale Mohammed Dahlan intende partecipare. Ex uomo forte di Fatah – nonostante la sua espulsione, guida ancora una nutrita pattuglia di sostenitori all’interno del partito – ed ex potente capo della sicurezza preventiva a Gaza (dove è nato e cresciuto, a Khan Yunis), Dahlan dopo aver combattuto, in evidente cooperazione con gli Stati Uniti e Israele, una lunga battaglia contro Hamas, è poi giunto allo scontro con Abu Mazen senza esclusione di colpi. Scontro cominciato dopo la bruciante sconfitta subita da Fatah e l’Anp nel giugno 2007 quando il movimento islamico ha preso il potere a Gaza. E che si è fatto più violento quando Abu Mazen ha deciso di usare le maniere forti e di espellere il suo rivale da Fatah, con l’accusa di aver tentato un “colpo di stato”. Da allora Dahlan ha vissuto tra il Cairo e Dubai, non mancando di stringere influenti amicizie e di ottenere da importanti uomini d’affari arabi finanziamenti per la sua ong, il braccio esecutivo delle sue iniziative nei Territori occupati.
La prossima udienza si terrà il 28 dicembre e Dahlan è intenzionato ad usare il processo in corso per lanciare un nuovo forte attacco alla presidenza palestinese e proporsi come possibile candidato alla guida dell’Anp al posto dell’anziano rivale. Sfruttando anche il via libera (di fatto) ottenuto dai leader di Hamas, un tempo suoi nemici e oggi interessati a cogliere un’opportunità per dare fastidio ad Abu Mazen e Fatah. Già un anno fa si parlò con insistenza di una intesa segreta tra gli islamisti e Dahlan in vista di una possibile corsa per la carica di leader dell’Anp. In cambio dei voti per diventare presidente, Dahlan avrebbe promesso che affiderà l’incarico di premier in Cisgiordania e Gaza ad un esponente di Hamas. I dirigenti del movimento islamico negarono tutto e negano ancora oggi, eppure di quella intesa si continua a parlare. E la minaccia di Dahlan deve essere davvero concreta se Abu Mazen ha “licenziato” in queste ultime settimane un centinaio di uomini, tra comandanti e agenti, dei servizi di sicurezza ritenuti vicini al suo rivale, accusandoli di aver violato le regole di comportamento delle forze militari dell’Anp. Non solo. Ha anche “pensionato” Jamal Zakout, consigliere dell’ex premier Salam Fayyad (ora avversario di Abu Mazen) e tra i leader riconosciuti della prima Intifada.
Così oltre alla mancata soluzione dei contrasti tra Fatah e Hamas – malgrado l’accordo di riconciliazione tra i due partiti firmato lo scorso aprile – i palestinesi continuano a presentarsi divisi e con un’alta conflittualità interna agli appuntamenti internazionali che riguardano il futuro della loro terra. Al Palazzo di Vetro di New York si continua infatti a trattare per evitare il veto degli Usa che, tuttavia, hanno seccamente bocciato il testo della risoluzione palestinese, in appoggio agli alleati israeliani. I tempi del voto si allungano e i palestinesi dopo aver già fatto delle concessioni – come estendere da due a tre anni il ritiro graduale di Israele dalla Cisgiordania – hanno fatto sapere che sono disposti a farne altre. «Continueremo a negoziare con tutti, anche con gli americani se saranno ben disposti», ha spiegato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riad Mansour. Ma anche lui sa bene che Washington eviterà di farsi coinvolgere nella trattativa. Perché la posizione concordata dal Segretario di stato John Kerry e il premier israeliano Netanyahu, durante l’incontro che hanno avuto lunedì scorso a Roma, prevede il rifiuto di qualsiasi intervento diretto dell’Onu nella soluzione del conflitto israelo-palestinese e il proseguimento dell’inutile negoziato a singhiozzo (mediato dagli Stati Uniti) al quale assistiamo da oltre venti anni, tra una Intifada e l’altra, tra una guerra e una tregua a Gaza.
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