Questa analisi del voto brasiliano
dello scorso ottobre è eccentrica rispetto a quelle che di solito
pubblichiamo su ∫connessioni precarie. A scriverla è un giovane studioso
che si è apertamente schierato per la presidente Dilma Roussef. La sua
analisi, tuttavia, ha per noi motivi di interesse. In primo luogo può
contribuire a sprovincializzare un dibattito di movimento in Italia
sempre più segnato dalla convinzione che esista una sorta di
delegittimazione preventiva del sistema politico-istituzionale, dipinto
costantemente sull’orlo della sua crisi finale in quanto preda della sua
corruzione e della sua incapacità di rispondere alle richieste di ampie
quote di popolazione. Questa descrizione ha innegabili elementi di
realtà. L’analisi che punta sulla progressiva e quasi inarrestabile
decomposizione del sistema politico non riesce tuttavia a spiegare come
sia possibile che questo stesso sistema politico riesca costantemente a
riprodursi e a ottenere insperate aperture di credito anche da parte di
coloro che sembra non rappresentare. Se ci si limita alla descrizione
della realtà non si spiegano molte cose in Italia e si comprendono anche
meno cose che capitano non lontano dall’Italia, per esempio in Grecia
con Syriza o in Spagna con Podemos. Il Brasile ha livelli altissimi di
corruzione e parte della realtà sociale è letteralmente
irrappresentabile dal sistema politico. Eppure, dopo le manifestazioni
oceaniche e gli scontri di piazza contro il rincaro dei prezzi dei
trasporti pubblici e contro la coppa del mondo di calcio, le elezioni
non sono state semplicemente un rituale passaggio di riproduzione del
sistema politico. Almeno due tensioni vengono giustamente segnalate
nell’articolo. La prima è che nella crisi globale della rappresentanza
politica, la lotta per l’ottenimento e la difesa di determinate
condizioni sociali passa anche attraverso il voto. Ciò non significa che
le risposte del sistema politico siano soddisfacenti o che esauriscano
tutte le possibilità di azione. Significa piuttosto che nella
transizione violenta dei regimi neoliberali, il sistema politico entra
in gioco anche contro le sue intenzioni e capacità. Basti pensare che,
eccettuato il partito dei lavoratori di Lula, che evidentemente non ne
ha bisogno, quasi tutti gli altri partiti maggiori brasiliani si
presentano come partiti socialdemocratici o sociali. Il tentativo di
governare il «sociale» è così attraversato dai movimenti di autodifesa
di chi altrimenti sarebbe destinato alla povertà e, fenomeno assai
importante in Brasile, dal movimento di coloro che, usciti dalla
povertà, non si accontentano della loro condizione attuale e pretendono
di partecipare ulteriormente alla distribuzione della ricchezza sociale.
Mentre assolve alla sua funzione di neutralizzazione dello scontro
sociale, la mediazione socialdemocratica innesca così livelli di lotta
di classe che trovano al suo interno il modo di esprimersi. Essa finisce
perciò per funzionare quale precondizione involontaria di una lotta di
classe che poi non arriva più a governare. In Brasile la tensione tra
queste due tendenze sembra arrivata a una tale polarizzazione, al punto
che Homero Santiago può parlare dell’ultima vittoria del lulismo, per la
necessità che da ora in avanti esso avrà di scegliere quale funzione
vuole davvero assolvere. Come per altri spazi globali – e il Brasile è
certamente uno dei più interessanti del pianeta – sarà dunque rilevante
comprendere come, seppure in maniera contraddittoria, la mediazione
istituzionale attivi e intensifichi la lotta di classe.
*****
Il secondo turno delle ultime elezioni
presidenziali in Brasile ha riproposto, per la sesta volta, uno scenario
di bipartitismo, con il PT (Partito dei lavoratori) e il PSDB (Partito
socialdemocratico brasiliano) che si affrontavano, ciascuno a capo di
una coalizione con altri partiti minori. La candidatura che prometteva
una «terza via», lanciata da Eduardo Campos (morto in un incidente aereo
in agosto) e ripresa da Marina Silva, non ha ottenuto successo.
Tuttavia, mai come in questa tornata la disputa è stata agguerrita e la vittoria di Dilma Rousseff è stata molto stretta, decisa da circa il 2% di un totale di 105.542.273 voti validi (escluse cioè le schede bianche, le nulle e le astensioni).
Tra i vincitori, oltre all’attuale
presidentessa, vi sono senz’altro Lula (già nel 2010 la candidatura di
Dilma, che non ha mai ottenuto un incarico pubblico per via elettorale, è
stata una scelta di Lula, sancita in seguito anche dalla base del
partito) e il PT, che ha ottenuto il diritto inedito di governare per
(almeno) 16 anni; dalla fine del regime militare, nessun partito era rimasto al potere per un periodo così lungo.
Tra gli sconfitti vi è senz’altro Aécio Neves, che ha perso anche nel
suo Stato; l’ex-presidente Fernando Henrique Cardoso, criticato di nuovo
e con forza per i suoi due governi precedenti, e il PSDB, che
nonostante le vittorie significative in alcuni Stati si dimostra ancora
una volta incapace di presentare un progetto di opposizione che non
abbia come unico scopo quello di «privare del potere» il PT. Fino a qui è
tutto più o meno ovvio, senza sorprese. Però ci sono anche delle
novità; soprattutto, vi è un dato inedito sul quale vale la pena
insistere: se consideriamo queste elezioni in continuità con le
tre precedenti, possiamo vedere delinearsi un vero e proprio crocevia
per quello che convenzionalmente viene definito come «lulismo», poiché le urne del 2014 hanno sancito nel contempo la sua vittoria finale e il suo esaurimento.
Non è facile precisare in che cosa consista questo «-ismo». Pur essendo stato già oggetto di un buon numero di studi, il
lulismo, come quasi tutto ciò che è apparso di recente sulla scena
politica, è qualcosa che la gente conosce più attraverso il sentimento
che non attraverso delle definizioni precise. Da un lato, chiaramente,
vi è la figura carismatica di Lula, personaggio che ha seguito una
traiettoria esemplare e che ha mostrato di essere il principale
vincitore elettorale nel paese. Da un altro lato, molto più
significativo, il lulismo, crescendo gradualmente nel corso dei due
governi Lula fino a trionfare con la crisi del 2008-2009, si è imposto
come una combinazione di azioni politiche che cercano al
contempo, attraverso un forte intervento statale, di promuovere lo
sviluppo economico del paese e di diminuire le diseguaglianze sociali:
aumento reale del salario minimo, garanzia di un reddito minimo
attraverso la «Borsa-famiglia», espansione del sistema universitario
federale e finanziamento pubblico delle università private, ampio
accesso al credito per i detentori di bassi redditi e finanziamenti
agevolati, attraverso le banche pubbliche, per gli imprenditori,
mantenimento delle deduzioni fiscali negli ambiti della salute e della
formazione per la classe media, ecc. Il risultato, sempre prendendo come parametro il ciclo di 12 anni che termina nel 2014 (due governi di Lula e uno di Rousseff), è stato una reale crescita economica e una vigorosa inclusione sociale, il che dimostra il suo pieno successo; ma, non di meno, da questa politica è derivato anche, secondo alcuni, un raffreddamento della lotta di classe che, perlomeno in Brasile, non ha avuto paragoni in tempi recenti.
Concentriamoci su quest’ultimo punto, il
più problematico, ma anche il più rilevante per misurare i prossimi
passi del lulismo. Tenendo presente lo studio più completo sul lulismo
pubblicato finora (Os sentidos do lulismo – I sentimenti del lulismo,
del politologo André Singer), un elemento essenziale del programma
lulista, il cui sviluppo ha permesso la prima vittoria di Lula, è stata la promozione di una trasformazione ordinata della società brasiliana.
Questo significa che i cambiamenti sociali sono desiderabili, ma è
necessario che essi si diano all’interno dei parametri dell’ordinamento
costituito, immune al radicalismo e senza margini per uno scontro di
classe. Il governo deve essere quindi il garante di un patto, grazie al quale tutti possano guadagnare:
i poveri salgano alla classe media e al mercato dei consumi; la classe
media mantenga i suoi vantaggi, gli imprenditori abbiano la vita più
facile dagli aiuti statali e dall’espansione del mercato interno, i
banchieri continuino a guadagnare nel mercato finanziario. La sintesi
perfetta di questa operazione è il sottotitolo del libro di Singer: riforma graduale e patto conservatore: un nuovo New Deal, nelle parole del politologo.
Ora, questo è stato, in senso generale,
il progetto politico che ha vinto nel 2014. Ne è prova il fatto che
Dilma è stata rieletta nelle condizioni più avverse: il suo carisma
personale non ha molto peso, e i suoi stessi alleati confessano che il
suo carattere è difficile; i problemi abbondavano da ogni parte:
disarticolazione parlamentare, tassi di crescita rallentati, denunce di
corruzione. Come mai allora è stata rieletta? Per la forza del lulismo,
il grande vincitore delle elezioni non soltanto perché ha ottenuto la
consacrazione delle urne, ma soprattutto perché ha imposto all’intero
paese, con poche eccezioni, la sua agenda politica. In questa elezione
(come era già accaduto in quella precedente) non vi è stato nessuno tra i
candidati principali che abbia osato mettere in discussione l’agenda
lulista nei suoi aspetti fondamentali. Le differenze sono state
soprattutto di accento su come procedere, al punto che, se fino a poco
tempo fa il Brasile, come peraltro il resto dell’America latina, era
assoggettato al malfamato Washington consensus, oggi si può parlare, almeno per il caso brasiliano, di una specie di «consenso lulista».
Nessun politico dell’opposizione è in grado di andare in televisione e
mettere in discussione, per esempio, la «Borsa-famiglia»; al contrario,
tutti la elogiano, tutti dichiarano di volerla migliorare. Analogamente,
quasi nessuno (le eccezioni sono rarissime, e quasi sempre
rappresentate da coloro che non si candidano a cariche pubbliche)
propone una riduzione dei diritti dei lavoratori o la fine della
formazione scolastica o del servizio sanitario gratuiti. Nel Brasile
odierno, insomma, si può ben essere contro il PT, ma è il lulismo che
detta ancora i termini del dibattito politico, inclusi quelli
dell’opposizione. Si discute sempre all’interno della stessa cornice,
della stessa agenda, e questo spiega anche, almeno in parte, i problemi
di un’opposizione che si è mostrata invariabilmente incapace di
inventare qualcosa di nuovo, e le cui critiche non riescono mai a
toccare dei punti essenziali. L’esito di questo insieme di
fenomeni nella testa degli elettori si è rivelato nelle urne: «se devo
votare per le stesse cose, è meglio l’originale della copia».
Vittoria del lulismo, quindi, senza
alcun dubbio. Però la questione è di sapere in quali termini. Il
risultato elettorale di questo programma teorico non manca di mostrare
segni di debolezza; più ancora, il suo esito finale si dà nella forma
definitiva di un esaurimento che si sta già mettendo in luce. Il punto
nevralgico non riguarda tanto gli obiettivi di inclusione sociale e di
crescita economica (sui quali vi è un’unanimità di vedute), quanto la
convinzione che questi obiettivi si possano ancora raggiungere senza un
aumento della contrapposizione tra le classi. Questo è il punto
del programma lulista, ovvero la pacificazione della lotta di classe,
che forse rappresenta la maggiore sconfitta nell’ultima tornata
elettorale.
Per comprendere meglio, innanzitutto
occorre dire che l’aspetto più significativo delle elezioni
presidenziali di quest’anno è stato la ricomparsa di un vecchio genere
di politica, tipico degli anni ’80. Come era previsto, il marketing
politico che vende i candidati come fossero delle saponette si è
rivelato fortemente presente: c’è stata una professionalizzazione della
militanza, ci sono state offese, denunce, manovre di partito, ci sono
stati gli intellettuali di turno, perlopiù legati alle forze più
viscerali del mercato, che dicevano pubblicamente che, chiunque avesse
vinto, sarebbe stato lo stesso. A fianco di tutto questo, comunque, va
riconosciuto che c’è stato anche un impegno reale di persone, famiglie,
movimenti sociali, delle imprese del mercato finanziario, degli organi
di stampa (il più importante settimanale brasiliano ha anticipato la sua
edizione domenicale alla notte del venerdì per pubblicare alcune
denunce contro Rousseff). Insomma, c’è stata militanza politica reale. All’improvviso, le elezioni non erano soltanto un supermercato di candidati,
e questi ultimi non erano più saponette in offerta. Il paese si è
diviso, la polarizzazione è stata tanto intensa che talvolta qua e là si
è passati alle vie di fatto, lo scontro si è trasferito nella
quotidianità. Mi permetto, a questo punto di raccontare due fatti
personali: mio figlio di nove anni è stato minacciato da un suo compagno
di «venire picchiato» in caso di vittoria di Dilma; una tassista,
vedendo che io portavo un simbolo dilmista, mi ha chiesto che «borsa»
ricevevo per votare per il governo; io non ho aperto bocca, ma avevo una
gran voglia di rispondere: «ho ricevuto una borsa di studio per
prendere il dottorato, e non dover fare il tassista». Senza dubbio gli
elettori dilmisti si sono comportati allo stesso modo, quindi ciò che
sto dicendo non deve essere considerato come una divisione di carattere
morale; ho soltanto narrato delle situazioni che ho vissuto, prese nella
loro specificità, per dare un’idea del clima di quei giorni, nei quali
la conquista di ogni singolo voto aveva l’aria di essere una fatica
erculea.
Per alcuni, senza dubbio, questa
contrapposizione sarà del tutto vana. Sono gli intellettuali che amano
preparare una zuppa politica nella quale, come nei pasti dell’ospedale,
ogni cosa ha il medesimo sapore. Votare per, votare contro, non fa
differenza! Il fatto però è che la gran parte della popolazione
brasiliana, forse perché poco intelligente, o forse perché non obbligata
a raccontare queste sciocchezze blasé, non ha visto le cose in questo modo. A
partire da un certo momento della campagna elettorale, tutto è apparso
chiaro: valeva la pena militare, cercare di guadagnare voti, lottare. Due progetti, due concezioni del paese si confrontavano realmente.
Sebbene i temi fossero gli stessi, nonostante le evidenti somiglianze,
per la popolazione vi erano in gioco delle differenze importanti. Che
tutti volessero l’inclusione sociale, era ovvio; non era ovvio invece,
poiché non si tratta della stessa cosa, promuovere questa inclusione a
partire dal rafforzamento dei diritti sociali e da un’azione statale
determinata, o sperare di realizzarla per mezzo dei mercati. Da un lato
vi era Dilma Rousseff, che senza sottovalutare il mercato enfatizzava
l’efficacia dei trasferimenti fiscali, la garanzia dei diritti dei
lavoratori, e così via; dall’altro lato Aécio Neves, che senza rinnegare
le politiche sociali accentuava la responsabilità fiscale, la necessità
di tagliare le tasse, e così via. Differenze sottili? Forse. Ma il
fatto è che l’elettorato, nel bene e nel male, non la pensava così. In
politica a volte le sfumature possono assumere grandi dimensioni,
soprattutto quando esse acquistano una chiara coloritura di classe, come prova una lettura della mappa dei risultati.
Il contrasto più evidente appare nella
divisione tra le regioni che hanno votato in maggioranza per il PT e
quelle che hanno votato per il PSDB. Neves ha vinto al Sud, al
Centro-est e in una parte del Sud-est, in primo luogo nello Stato di San
Paolo, il più ricco della federazione, nel quale si concentra quasi un
terzo del PIL brasiliano. Rousseff ha vinto al Nord, in una parte del
Sud-est (precisamente nel Minas Gerais, lo Stato che era governato da
Neves) e ha ottenuto un successo massiccio nel Nord-est, regione
storicamente esclusa dallo sviluppo nazionale (il «mezzogiorno»
brasiliano). Per un brasiliano, questa divisione ha un significato
cristallino, che va ben oltre tutta una costellazione culturale di
immagini e di preconcetti.
Da un lato vi sarebbe quindi il candidato di un Brasile «sviluppato» e che «lavora»
– il Sud e San Paolo dell’immigrazione europea, per la maggioranza
bianchi, che presentano indici di sviluppo confrontabili con quelli
europei; ma anche il Centro-est, dove si trova l’agrobusiness brasiliano e il ricchissimo Distretto Federale; dall’altro, la candidata del Brasile «arretrato» e che «vive di Borsa-famiglia»
– il Nord è un territorio esteso di foreste che è produttivo soltanto
nella zona franca di Manaus grazie agli incentivi fiscali, mentre il
Nord-est, quasi desertico, ha una storia politica segnata
invariabilmente dal «coronelismo» (la preminenza politica di uomini
forti con i loro seguaci armati a livello locale e regionale nelle aree
rurali), dall’assistenzialismo, e presenta i peggiori indici di sviluppo
del paese; entrambe sono regioni meticce.
Ci sarebbe il caso del Minas Gerais a
smentire questa lettura. Tuttavia, come dicono alcuni, il Minas è il
Nord-est del Sud-est: la ricchezza è concentrata soprattutto in una
fascia geografica, mentre il Nord, in particolare la Valle di
Jequitinhonha, è poverissima (per uno straniero vale la pena di
ricordare un modo di dire tipico del Sud-est del paese: «l’abitante del
Minas non è altro che un abitante di Bahia stanco». Infatti, nel periodo
delle grandi migrazioni, quando i nordestini si spostavano in massa
verso il Sud-est, gli abitanti di Bahia per qualche ragione avevano la
fama di essere sempre privi di iniziativa: arrivati alla frontiera con
il Minas Gerais, molti rimasero lì, come se non avessero la forza di
raggiungere quella terra del lavoro e dell’abbondanza che era San Paolo.
Insomma, tutti gli abitanti del Minas altro non sarebbero che
nordestini ai quali non piace lavorare). La divisione regionale è
stata a tal punto significativa che ora il PT è accusato di essersi
trasformato in un partito di cavernicoli. Peggio ancora, una
volta divulgati i risultati ufficiali, su internet ha cominciato a
scorrere il florilegio di battute che i brasiliani ben conoscono
(perlomeno quelli del Sud e del Sud-est) sull’ignoranza di quelli del
Nord-est, sul colore della loro pelle e sulla loro pigrizia; perfino
alcuni giornali cosiddetti «seri» (figuriamoci!) hanno lasciato che
sulle loro pagine comparissero delle suggestioni separatiste: il Brasile
del Nord contro il Brasile del Sud!
Ma le cose stanno veramente così?
Probabilmente no. Approfondendo un poco la messa a fuoco della mappa dei
risultati, si può notare che le macchie rosse (Dilma Rousseff) e quelle
azzurre (Aécio Neves) non sono distribuite in maniera così omogenea
come appare quando lo sguardo si sofferma al livello delle regioni o
degli Stati della federazione. Al contrario, a seconda del grado di
ingrandimento, tali macchie si mescolano all’interno degli Stati e delle
città. Si tratta di un dato importante, perché la logica della distribuzione appare meno regionale (i lavoratori intelligenti del Sud contro gli «asini pigri» del Nord) che non di classe.
Prendiamo due casi emblematici come San Paolo e Rio de Janeiro:
entrambe del ricco Sud-est, le due città più popolose del paese. Neves
ha vinto nella prima, Rousseff nella seconda.
Rio è divisa dalle montagne; la zona
marina è la città famosa in tutto il mondo per le sue spiagge, una
fascia stretta e allungata che ha votato in maggioranza per Neves.
Invece il versante che sta oltre le montagne, ovvero la zona nord, è la
Rio che pochi conoscono: l’area abitata dai poveri e dalla classe
medio-bassa (definita «suburbana»), che ha votato per Rousseff. Nella
geografia del voto paulista vi è una situazione analoga. La mappa di San
Paolo può essere paragonata alla testa di un cane (della stessa razza
di Scooby Doo) vista di profilo: ora, le orecchie, la punta del muso e
il collo, ovvero le estremità, hanno votato per Rousseff, mentre la
parte centrale della figura, soprattutto quella denominata il «centro
espanso» (zona in cui abita, tanto per fare un esempio, l’ex-presidente
Fernando Henrique Cardoso), ha votato in misura massiccia per Neves.
Fino a qui nessun segreto, a meno di non voler travisare la realtà. Le
preferenze elettorali sono state influenzate poco o per nulla da
peculiarità di carattere regionale, mentre lo sono state, più
coerentemente, dal reddito medio della popolazione e dalle sue
condizioni di vita. Le analisi di molte altre mappe elettorali non
farebbero che ribadire questo concetto: si è trattato di un voto di classe.
Le fasce più basse della popolazione, al Nord come al Sud, bianchi o
mulatti che fossero, lavoratori o beneficiari della Borsa-famiglia,
hanno tutte votato per la candidata lulista; quelle più ricche, invece,
hanno scelto l’opposizione.
Questa fatto permette di evidenziare la
novità delle elezioni del 2014: la lotta di classe, che era stata
rimossa forse per troppo tempo, sembra essere ritornata con forza sullo
scenario politico, ancorché sotto una forma rinnovata, forgiatasi in
maniera sotterranea negli anni del lulismo. Un conflitto che si sviluppa
meno nell’opposizione tra i gruppi associati tradizionalmente alla
lotta sociale (ad esempio imprenditori contro operai, come negli anni
’80) o tra quelli radicati nei grandi movimenti sociali, come il MST
(Movimento dei Sem-terra), che non attraverso lo scontro tra poveri e
ricchi, «piccoli» e «grandi» (per dare un tono machiavelliano
all’affermazione), o tra coloro i quali (va sempre ricordato) si
riconoscevano in progetti politici che, nonostante le somiglianze,
denotavano ai loro occhi un’opzione di classe. Su tutto il
territorio nazionale è valso il principio per cui quanto più l’area era
povera, tanto più si votava per Rousseff; e quanto più era ricca, tanto
più si votava per Neves. Forse si tratta di una logica
elementare, ma la lotta di classe, in fondo, si basa su concetti
elementari; e nonostante ciò, la cosa non ha mancato di destare
sorpresa, in particolare per quanto riguarda il posizionamento di quel
gruppo sociale che, nel dibattito politico brasiliano recente, ha
attirato molta attenzione: il segmento di coloro che, durante gli anni
del lulismo, sono riusciti a uscire dalla povertà e a raggiungere una
nuova condizione di vita.
Dai tempi di Lula, una fascia enorme della popolazione brasiliana è potuta uscire dalla povertà
(perlomeno secondo le statistiche ufficiali) e ottenere un’ascesa
economica che ha migliorato significativamente le sue condizioni di
vita, permettendo a molti un ingresso massiccio nel mercato dei consumi.
Questa fascia è stata chiamata, a seconda dei casi, «nuova classe
lavoratrice», «classe C», «nuova classe media» (definizioni che, occorre
notare, non rispondono a una categorizzazione troppo rigida). A
sinistra molta gente aveva storto il naso nei confronti di questa «nuova
classe», giungendo ad affermare che si trattava di un contingente di
consumatori e nient’altro, privi di qualsiasi coscienza politica, sui
quali si poteva contare molto poco per una trasformazione del paese. Non
a caso, d’altra parte, era proprio su questo gruppo che i diversi
politici all’opposizione avevano puntato le loro fiches, in
particolare coloro i quali propagandavano l’idea di una «nuova classe
media» in via di formazione che, prima o poi, spinta dal desiderio di
ascesa sociale sarebbe passata ad assumere come propri i valori della
classe media tradizionale, e quindi a opporsi all’agenda politica
lulista. Ma quale è stato il risultato? Ancora è presto per affermarlo
con certezza, e tuttavia si dà il caso che, qualunque sia la giusta
denominazione da dare a questo gruppo sociale, tenendo conto di quello
che si può dedurre dalle elezioni presidenziali del 2014 è certo che
tanto una certa destra, quanto una certa sinistra hanno sbagliato i
pronostici: la «nuova classe», in generale, si è collocata a fianco della candidata lulista.
A questo punto, non si può fare a meno
di mettere in conto qualche riflessione sull’evento più rilevante della
storia brasiliana recente, ovvero le manifestazioni del giugno 2013.
Per quanto ancora adesso sia impossibile avere una consapevolezza
esatta delle loro possibili conseguenze, un dato significativo è che i
grandi slogan che, in ultima istanza, davano concretezza a tali
manifestazioni furono fin dall’inizio quelli che richiedevano
l’implementazione di diritti sociali: il trasporto pubblico (gli autobus
della città di San Paolo, dove le proteste ebbero inizio a seguito di
un aumento delle tariffe,
recano questa scritta suggestiva: «Trasporto, un diritto del cittadino,
un dovere dello Stato»), la salute e la formazione, come si urlava alla
vigilia della Coppa del Mondo, protestando contro gli «standard di qualità Fifa». Questo è il punto cruciale: le
richieste tipiche della classe media (in primo luogo la riduzione delle
tasse) sono state quasi sempre assenti nelle manifestazioni del giugno
2013, e anche quando apparivano sporadicamente non ottenevano
grande adesione. Le istanze della mobilitazione furono sempre quelle
che, retrospettivamente, possono essere considerate come ispirate dalla
Costituzione brasiliana del 1988; e questo va sottolineato non per un
qualche rigurgito legalista, bensì perché quella carta costituzionale,
redatta dopo un lungo periodo dittatoriale e a partire dal desiderio di
un processo di ridemocratizzazione che mobilitò gran parte del paese, ha
dato vita a una concezione di uno Stato del welfare per tutti i brasiliani e i residenti in Brasile (per segnalare la sua qualità politica,
basti dire che si tratta di un documento vilipeso quotidianamente dagli
agenti del mercato, che la considerano interventista, causa del costo
esorbitante del lavoro, produttrice di insicurezza giuridica per le
imprese, ecc.). Considerando il seguito ottenuto da queste
manifestazioni, è inevitabile riconoscere che la gran parte della
popolazione brasiliana e la maggioranza della nuova classe media o nuova
classe lavoratrice, nel giugno 2013 e nei mesi seguenti si è dichiarata
a favore di una agenda lulista, che in quel preciso momento era l’unica
capace di esprimere sul piano nazionale un progetto sociale immune
dalle contaminazioni delle richieste tipiche della classe media
tradizionale.
Insomma, è stato proprio questo gruppo sociale in ascesa che ha svolto un ruolo determinante nella vittoria di Rousseff,
come mostrano alcune analisi della campagna elettorale. Ad esempio, è
particolarmente interessante valutare le reazioni di questo gruppo
sociale all’annuncio, da parte di Neves, del nome del suo futuro
ministro dell’Economia, ovvero Armínio Fraga, lo stesso che fu
presidente della Banca centrale tra il 1999 e il 2003, conquistando le
simpatie dei mercati; colui che, come alla stampa piace ricordare,
riuscì ad avere il proprio nome tra quelli che Obama suggeriva come
candidato affidabile e competente alla presidenza della Federal Reserve.
I mercati lo adorano, e Neves aspirava proprio a ottenere la loro
fiducia. Bene, è stato proprio in quel momento che la sua campagna
elettorale ha cominciato a rallentare. Armínio Fraga, per la gran parte
della popolazione brasiliana, è il nome che simboleggia un periodo di
acuta recessione, alta disoccupazione, riduzione dei salari, tagli nelle
politiche sociali, e una fede cieca nella salvaguardia della moneta e
nelle politiche neoliberiste. Per molti brasiliani, e in primo luogo per
quelli usciti dalla povertà negli ultimi anni, il nome di Fraga deve
essere suonato come un campanello d’allarme per le loro conquiste
recenti: e questo nel Nord-est, nel Nord, così come nelle aree meno
privilegiate di San Paolo, di Rio de Janeiro e di tante altre città.
Proprio tenendo conto che questo «nuova
classe» ha finito per allinearsi a Rousseff, e non a Neves, troviamo una
novità di grande interesse per quanto riguarda la recrudescenza della
lotta di classe e il suo posizionamento. Si tratta di una convergenza
tra settori poveri, una grossa fetta dei quali ha beneficiato della Borsa-famiglia, e, fatto per molti inatteso, fasce sociali che grazie al lulismo hanno raggiunto un nuovo livello di vita. Queste ultime persone possiedono ormai quanto serve a un sostentamento di base, ma ora chiedono di più:
e questo di più, nel complesso, è orientato alla richiesta di una
formazione scolastica e di un servizio sanitario gratuiti e di qualità,
tali che essi possano anche ridurre le loro spese (ma una riduzione che
provenga dal miglioramento del servizio pubblico, e che quindi li
dispensi dalla contrattazione privata di servizi specifici; non dal
taglio delle imposte). Una simile novità merita tutta la nostra
attenzione, poiché ci aiuta a comprendere meglio le mappe elettorali, se
andiamo a guardarle più da vicino, e non soltanto dal punto di vista
regionale: da un lato, dunque, una convergenza di interessi comuni che unificano poveri e bassa classe media in un blocco sociale; dall’altro lato, la reazione irata della classe media tradizionale che,
come nei suoi peggiori momenti, non potendo limitarsi a brandire la sua
nota sequenza di preconcetti, cerca di invocare soluzioni autoritarie e
farà di tutto per sabotare il prossimo governo – come peraltro si è già
riscontrato con l’occorrenza di alcune marce antigovernative che
volevano mettere in discussione il risultato elettorale.
Ora, a meno di non prendere lucciole per
lanterne, quello che le elezioni del 2014 hanno propiziato è stato un
forte ritorno della lotta di classe, ritorno che ancora una volta
risponde presente a una richiesta proveniente della politica. Ma se le
cose stanno così, come noi pensiamo che stiano, allora la situazione del lulismo è del tutto particolare.
Infatti, la sua agenda politica si è dimostrata di successo, e per
questo esso è stato il principale vincitore. Il suo successo nasce dal
fatto che ha proseguito il suo progetto di inclusione sociale su larga
scala, che ha riposizionato nella società brasiliana una larga fetta di
popolazione tradizionalmente marginalizzata, che ha garantito alle
imprese e alle banche grandi profitti; e ha fatto tutto questo obbedendo
all’imperativo proprio della concezione lulista della «pace sociale».
Ma il 2014, nonostante tutto ciò, ha finito per portare alla luce del
sole un elemento che mancava al programma lulista, un problema al quale
esso non può rispondere nella sua forma attuale. Paradossalmente,
le ragioni del successo del lulismo sono le stesse che ne spiegano
anche l’esaurimento: la pacificazione tra le classi sembra che non possa
mai avere luogo, e nei prossimi anni Rousseff e il PT dovranno
dare alle proprie scelte una chiarezza maggiore di quella che finora ha
dato qualsiasi presidente dell’epoca post-democratizzazione. Le sfide
sono: rafforzare e radicalizzare le conquiste sociali recenti, inventare
nuovi meccanismi di sviluppo, ampliare la partecipazione politica.
Insomma: dire con chiarezza da che parte si sta. Il lulismo ha vinto, ma questa è l’ultima vittoria del lulismo come lo abbiamo conosciuto finora.
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