“La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”
Thomas Mann
Vedere Class Enemy,
del regista Rok Bicek, è sicuramente un’esperienza da provare, perchè
ci parla in modo profondo di cosa vuol dire vivere la scuola oggi, tanto
per gli studenti, quanto per chi a scuola ci lavora, così come per le
famiglie. Vediamo generazioni che non posseggono gli strumenti per
parlarsi, per capirsi (i programmi ministeriali, ovunque, non servono a
ciò) per avere il tempo e la pazienza di avviare un percorso di crescita
interpersonale.
Il film, partendo dal suicidio
di una studentessa in una classe che ha appena visto arrivare un serio e
rigido supplente, evolve continuamente nelle scene fino ad approdare a
quella che pensiamo sia la questione centrale che si pone oggi sul tema:
questo modo di “educare”, a queste condizioni e con questi tempi, è
funzionale solo a replicare l’esistente. Lo vediamo bene nei colloqui
tra genitori e professori in seguito ad uno dei tanti momenti di
tensione mostrati, quando gli studenti prendono il supplente come caprio
espiatorio della morte della giovane: i genitori non solo mostrano come
la propria provenienza di classe conduca a questo o quel comportamento,
ma che la cosa si riflette sui figli in maniera identica. La scuola,
dunque, anche se letteralmente si divide in “classi”, non livella e non
livellava nemmeno ieri le differenze di classe; gli studenti, provenendo
da contesti sociali diversi, non rappresentano una classe con gli
stessi interessi nel lungo periodo. Quel che il film di Bicek ricorda è
che il ribellismo giovanile è ovunque insito nei ragazzi, che
l’organizzazione massificata e lineare dell’apprendimento, specie con
l’evoluzione tecnologica, rende apatici, non incuriosisce, non dà un
motivo valido per seguire una lezione. Per lo più, come uno spacciatore,
somministra pillole ideologiche e astratte di vario tipo, aspettando
che le pecore tornino al gregge. I ragazzi sono oggi bombardati di
informazioni propagandistiche, ma non hanno gli strumenti (e come loro
gli adulti) per filtrarle, non posseggono cioè una chiave di lettura
della realtà, quindi si incazzano e agiscono d’istinto. Non riescono a
comprendere l’importanza delle contraddizioni, devono necessariamente
aggrapparsi a punti di riferimento come le mode, non decise da loro e in
continuo mutamento; si sentono quindi spaesati, in perenne
competizione, anche se a volte scoprono che possono cooperare per
raggiungere risultati migliori, pur nel misero contesto sociale nel
quale sono immersi. E con questo hanno a che fare inevitabilmente i
professori, i quali provano ad assecondare in modo bonario gli studenti
fallendo platealmente: pur in una situazione “ottimale”, direbbero molti
sociologi, dal momento che nel video vediamo un istituto ben attrezzato
ed organizzato, il bubbone è pronto ad esplodere e l’istituzione non
può far niente contro il penetrare degli effetti sociali della realtà.
“Mi sembra importante poter
parlare, attraverso l’arte cinematografica, di temi che riflettano sia
la società nazionale che quella mondiale”, ha commentato il regista: una
frase non da poco, perchè consente di togliere un velo sulle
stucchevoli retoriche nazionali (ci basta e avanza quella nel Belpaese)
de “più fondi alla scuola e all’università”. Spesso infatti questi
appelli prescindono dal contesto e, oltre a mostrare un certo cinismo
economicista, aggirano la questione. Non si tratta infatti, e il film ce
lo ricorda, di buttare più benzina in un serbatoio di una macchina
altrimenti “sana”: è proprio tutta la struttura, a livello globale che
non regge più! Se guardiamo i dati
sui suicirdi nel mondo, in particolare nella fascia tra i 15 e i 29
anni, vediamo che il suicidio è la seconda causa di morte, uno ogni 40
secondi; se a questo sommiamo il livello del consumo di sostanze tra
adolescenti e non, i cui primi approcci comiciano ad essere sempre più
“precoci”, se, inoltre, provassimo ad essere un po’ più onesti con noi
stessi ci renderemmo conto che non è possibile, razionalmente, pensare
che l’educazione dei ragazzi possa avvenire scaricandoli da qualche
parte (come la scuola) in un contesto dove (dagli Usa all’Italia) gli
insegnanti sono pagati una miseria e dove, pur con tutti i mezzi per
“risparmiare tempo”, siamo sempre di fretta e non abbiamo mai abbastanza
tempo per ciò che dovrebbe essere indispensabile, appagante.
I risultati sono sotto i nostri occhi: il disagio
esistenziale, in Italia come altrove, si esprime in forme diverse, ma
lo sostanza è identica. La risposta non si trova, sempre per sfatare un
altro mito, nella “cultura” genericamente intesa, così come in un tipo
particolare di questa. Un tempo la retorica de “un popolo ignorante è
manipolabile” poteva anche reggere ma, oggi, di fronte alla conferma del
fatto che le classi dominanti si impongono tanto con “l’ignoranza”
quanto con la loro di “cultura”, è necessario iniziare a chiarirsi le
idee sul tipo di società che vogliamo domani. Perchè in questi “popoli”
il nemico è sempre appartenente ad una classe ben precisa, responsabile
del disastro dei nostri giorni. Ha una responsabilità enorme sulla
formazione delle giovani menti, che non riesce e non può, per assenza di
tempo speso in modo sociale, portare avanti seguendo i bisogni umani.
Il nemico, come recita il titolo del film, è sì in classe, dove ogni
giorno avviene la somministrazione dell’ideologia dominante, ma è anche
fuori: in casa, al lavoro, per strada. Non possiamo personificare e ogni
personalizzazione servirebbe solo come capro espiatorio: è questa
l’essenza del nostro rapporto sociale. E, come scriveva qualcuno, non si
tratta tanto di interpretarlo, ma di cambiarlo!
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