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24/12/2014

Gucci, Prada, Moncler: il tempo dello sfruttamento è la sostanza del valore


Nella puntata di Report dedicata alla produzione dei piumini Moncler (come delle borse di Prada) la giornalista responsabile del servizio mostrava come, per una differenza di circa 20 euro a borsa, la produzione dei capi fosse stata delocalizzata dai padroni verso la Moldavia, nella lontana regione della Transnistria. Qui, nelle stesse fabbriche in cui venivano prodotte le divise per il coro dell’Armata Rossa (!), centinaia di operaie fabbricano migliaia di piumini e capi per il settore del lusso, facente parte del cosiddetto “made in Italy”.

La cosa interessante è che, in pratica, la giornalista di Report ammetteva come al centro della decisione dei vari grandi marchi ci fosse una duplice ragione: i più alti margini di profitto grazie ai salari più bassi dei lavoratori moldavi, pur producendo questi un minor numero di borse ogni giorno rispetto ai lavoratori italiani dotati di una diversa organizzazione del lavoro; e, fattore che compensava questo apparente handicap produttivo, una giornata lavorativa più lunga imposta ai lavoratori moldavi (intorno alle 13 ore).

Tali fattori, al netto della minor produttività, permettono ai marchi della moda di produrre con margini di profitto alti, quindi con costi risibili (20 euro a piumino) rispetto al prezzo finale, prezzo che, inglobando l’enorme profitto intascato dai marchi, non corrisponde al valore della merce. Questo è ciò che si chiama estrazione di plusvalore assoluto: viene allungato il tempo di lavoro eccedente, ovvero il tempo in cui chi lavora produce più dell’equivalente del proprio salario, a tutto vantaggio di chi si appropria di questa differenza temporale, poiché, una volta venduta, la merce torna sotto forma di denaro.

Alla stessa giornalista, che chiede come mai per “20 euro” valga la pena spostare tutta la produzione, risponde un addetto della fabbrica intervistato, facendo notare come 20 euro moltiplicati per 1 milione di piumini, faccia 20 milioni di euro ! Ecco spiegata, col massimo furto di tempo e la minima spesa in salari, nonostante una minore intensità del lavoro, la scelta di Moncler e company: una scelta padronale, sia per la quantità che per la qualità del risultato che, come sempre accade in questa società, mostra come siano spietate le bronzee leggi del profitto. Di fronte alle immagini e alle testimonianze, però, molti hanno preferito (tra cui la redazione di Report) soffermarsi sulle “disumane condizioni delle oche spennate”, mostrando così un’indubbia sensibilità animalista ma, al contempo, una strana concezione di quella umana (confermata anche da una recente puntata nella quale si consigliava di “non lasciare i carcerati con le mani in mano e metterli a lavorare”) ma tant’è…

Anche nell’ultima puntata della trasmissione, poi, è arrivato qualche scampolo di verità: questa volta si è parlato di Gucci e del suo “modello produttivo di qualità”. Anche qui vediamo come sia i piccoli artigiani che i lavoratori addetti alla produzione in larga scala vengano derubati di tempo e di denaro. I primi lamentano pagamenti miseri per ogni pezzo prodotto a mano, secondo la “tradizione” vantata da Gucci nel suo sito, nelle date ore lavorate.

Il punto forte del servizio sta, ancora una volta, nel mostrare come esista sì un autosfruttamento da parte dei piccoli imprenditorini dei laboratori (che dicono di lavorare praticamente gratis per non perdere le commesse di un grande gruppo come Gucci) ma niente in confronto alle disumane condizioni degli operai cinesi del territorio toscano.

Questi, infatti, vengono assunti attraverso un mediatore cinese che non gli garantisce niente (ferie, malattia ecc.) a parte il lavoro a cottimo (più produci, più sei pagato, in teoria) formalmente vietato per legge, e una giornata lavorativa che va dalle 9 di mattina alle 11 di sera: 14 ore ! E il bello è che, sempre dalle immagini, si nota come i controlli non vengano mai effettuati, che tutti sappiano ed abbiano sempre saputo, e soprattutto come il tempo di questo sfruttamento legalizzato chiamato “lavoro” sia ancora una volta la misura e la sostanza del valore prodotto nel mondo. I padroni ringraziano, le istituzioni acconsentono e il prezzo finale occulta la realtà delle cose: in questa società mediata dal denaro, che accumulato diventa capitale, o si viene derubati del proprio tempo per ottenere del denaro, o si viene derubati del denaro in seguito ad aver affittato il proprio tempo, o entrambi. La strage della fabbrica di Prato dello scorso anno insegna.

Non si scappa.

Di fronte ai tanti discorsi sui “diritti”, il “giusto profitto” o l’”equo salario”, così come al “reddito di esistenza” e via dicendo, dopo aver constatato per l’ennesima volta che questa società si regge su di un furto legalizzato di tempo e valore, e che quindi farsene dare indietro un po’ non risolve proprio niente, rappresentando invece un contentino, pensiamo sia il caso di organizzarsi di conseguenza.

Non vogliamo un “altro mercato”, quindi un altro capitalismo; non esigiamo “più lavoro”, perché queste sono le condizioni (analogo furto di tempo si riscontra nel lavoro domestico, nel terzo settore come in fabbrica) e non ci sogniamo minimamente di gestire questo baraccone a suon di “riforme”.

Vogliamo proprio un altro mondo, perché è necessario cambiare radicalmente.


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