di Tania Careddu
Paesaggi scialbi, nuovi orizzonti di cemento, spazi. Fisici ma anche
mentali. Capacità di trovare nuovi modi per superare, saltare, aggirare
gli ostacoli che si trovano quotidianamente davanti, di aprire nuovi
percorsi nell’ambiente circostante, di attribuire significati
alternativi e senso ai luoghi marginali in cui si vive, di ricercare la
bellezza dove manca: è l’immagine perfetta dello spirito di adattamento
di una intera generazione nata e cresciuta ai confini delle metropoli,
fatti di palazzi moderni, pochi servizi e scarsa manutenzione degli
spazi pubblici. Dove mancano possibilità, speranza e futuro.
Descritti ne L’atlante dell’infanzia (a rischio) – Gli orizzonti del possibile,
il dossier di Save the Children che fa un viaggio attraverso le città,
le strade, i quartieri, le stanze e altri luoghi di vita dell’infanzia,
partendo dal presupposto che le città, a seconda della loro
conformazione, possono rappresentare o una minaccia per la loro salute
oppure una straordinaria occasione di sviluppo. E cioè: la qualità delle
abitazioni, la progettazione dei quartieri, la densità e l’allocazione
del suolo, l’accesso agli spazi verdi e alle infrastrutture, le aree
ricreative, le piste ciclabili, la pulizia dell’aria, l’inquinamento
acustico e l’esposizione a sostanze inquinanti influiscono sul benessere
dei minori.
Negli ultimi decenni, è cresciuta l’età in cui è
permesso stare fuori casa da soli, è diminuita la varietà e la qualità
complessiva dei luoghi pubblici nei quali ai bambini è concesso muoversi
e sembra aumentare l’insofferenza degli adulti nei confronti dei giochi
dei piccoli i quali pagano la scarsità degli spazi ludici con l’assenza
di “occasioni di gioco libero, auto-governato e non gestito da adulti e
da essi finalizzato”.
Deficitarie di parchi e giardini, piste ciclabili e aree pedonali,
più presenti al Nord che al Centro-sud, le città offrono la strada come
unico spazio possibile, sebbene, da un lato favorisca, appunto, la
mobilità del bambino, dall’altro ne configura il suo filo spinato con
effetti preoccupanti sulla salute. Il divieto di giocare in strada,
infatti, ne limita l’autonomia, la possibilità di trovare nuovi amici,
di sperimentare l’avventura e di attivare processi di crescita.
Così,
la contrazione degli spazi dedicati mantiene in auge le classiche
attività praticate nei vicoli, tipo nascondino, acchiapparella, mosca
cieca, campana, il gioco dell’elastico, biglie, pallavolo. Gli ascensori
delle palazzine delle periferie, i carrelli dei centri commerciali
adiacenti sono stati introdotti nel repertorio delle cose con cui
giocare per riscattare il nulla che li circonda. E le attività sulla
strada sono sempre più destrutturate, non basate sul risultato ma aperte
alla creatività e al valore del lavoro di gruppo. In questi contesti,
però, gli operatori osservano la “precoce perdita della dimensione
infantile e della sua necessaria spensieratezza” e la “contrazione dei
tempi dell’adolescenza”.
Crescere
in contesti di marginalità urbana e disuguaglianza spaziale vuol dire
partire da una oggettiva condizione di svantaggio: riduce gli spazi dei
bambini di incontro con il mondo, le possibilità di apprendimento, le
occasioni di nutrimento culturale e sociale. E in seguito al graduale
processo di allontanamento dagli spazi pubblici e dalla strada, le case
sono diventate, per la prima volta nella storia, il più importante
habitat dell’infanzia, oltreché un potente indicatore di salute.
Settecento
mila bambini vivono in appartamenti poco luminosi, un milione e
trecentomila in abitazioni con problemi di sovraffollamento (per
Eurostat, quando più di due bambini sotto i dodici anni o due
adolescenti di sesso diverso, si trovano a dover condividere un’unica
stanza), due milione e duecentomila in case umide, con tracce di muffa
sulle pareti e sotto soffitti che sgocciolano. Le conseguenze, oltre che
fisiche, sui minori che vivono negli alloggi situati nelle aree
marginali delle città sono psichici: pochi arredi, ripetitivi e carenti
per forma e varietà di colore, che dovrebbero avere un senso, invece,
“sottraggono loro opportunità di manipolare e organizzare le proprietà
visive dell’ambiente e di strutturare percettivamente e discriminare le
sfumature di quel dato ambiente”.
Tanto più che lo spazio dove si
cresce non è mai neutro, può, appunto, avere un ruolo di sviluppo
oppure essere un potente fattore regressivo. Anche perché i bambini
attribuiscono un’importanza strategica ai luoghi in quanto spazi di
rapporto con gli adulti e con le proprie possibilità più intime,
diventando lo spazio sociale necessario in cui affermare la propria
identità. “C’è qualcosa che permea la polis, le famiglie e la scuola
insieme: tutti sembrano incapaci di trovare modi di una presenza adulta
non ingerente, discreta, che lasci a sé senza abbandonare”, ha detto
Mario Rossi Doria, maestro di strada, che di politiche educative e
insegnamento in quartieri difficili ne ha un certa infarinatura.
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