“Posso, penso, dimostrare non basandomi su speranze ma su fatti,
prove e analisi, che il miglior modo per impedire all’Iran di avere
l’arma nucleare sia attraverso un accordo verificabile e resistente”.
Così il presidente Obama ha risposto ieri al premier Netanyahu a casa
propria: in un’intervista rilasciata a Channel 2 è tornato sulla
questione che da mesi tiene sulla graticola i vertici di Tel Aviv e che
ha aiutato a erodere i rapporti personali con il primo ministro
Netanyahu.
Nessuna azione militare – quella che Tel Aviv e Riyadh
sognano da tempo – ma un accordo negoziato è per Obama l’unica via per
tenere a bada la Repubblica degli Ayatollah: “Una soluzione
militare non metterà le cose a posto, anche se partecipassero gli Stati
Uniti. Ritarderebbe temporaneamente il programma nucleare iraniano, ma
non lo eliminerebbe”.
Quasi una rivincita quella che si è presa ieri Obama, dopo
che i primi di marzo Netanyahu – a due settimane dal voto in Israele –
si presentò non invitato dalla Casa Bianca al Congresso per lanciare
strali e accuse contro l’accordo del 5+1 su Teheran, riscuotendo grande
successo tra i repubblicani. Bibi ha paura, la stessa paura che hanno i
sauditi: perdere il nemico numero uno, vedere l’Iran che entra
dalla porta principale nella comunità internazionale e tessere normali
rapporti economici e militari con il resto del mondo, e quindi assistere
impotenti all’evaporazione del monopolio di alleati di ferro di
Washington.
Ancora domenica, in un incontro con il ministro degli Esteri tedesco
Frank-Walter Steinmeier, il premier israeliano tornava a ripetere il suo
mantra: l’Iran “è la più grande minaccia alla sicurezza di Israele,
alla stabilità della regione e alla pace del mondo”. Obama da
parte sua non molla, consapevole che un simile accordo (che dovrebbe
essere finalizzato il 30 giugno) è l’unica possibilità di salvare in
corner un’amministrazione che sul Medio Oriente ha fallito, dall’avanzata dell’Isis allo spezzettamento dell’Iraq fino al mancato processo di pace tra israeliani e palestinesi.
Già, il processo di pace. A disturbare l’intransigenza del
nuovo governo di ultradestra israeliano ci si mettono ora anche i
palestinesi, sempre – a quanto pare – con lo zampino
dell’alleato-avversario Obama. Secondo quanto dichiarato ieri dal primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Rami Hamdallah, la
Francia sta coordinato insieme agli Stati Uniti un’iniziativa alle
Nazioni Unite che individua i tempi del ritiro israeliano dai Territori
Occupati e la creazione di uno Stato di Palestina. Entro il 2017, 18 mesi per giungere ad un accordo finale.
“Sul tavolo c’è un’iniziativa francese, coordinata con gli Usa – ha
detto il premier palestinese al The Washington Post – Parlano di un
tempo limite. Questa risoluzione Onu può individuare un periodo entro il
quale terminare l’occupazione e creare uno Stato entro i confini del
‘67”.
Una volta, ha aggiunto Hamdallah, che la risoluzione sarà passata, si
potrà tornare al tavolo del negoziato con Israele. Tel Aviv da parte
sua gioca lo stesso gioco: Netanyahu domenica ha detto al
ministro tedesco di essere pronto al negoziato “senza precondizioni”.
Per poi porne subito due: uno Stato palestinese demilitarizzato e il
riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico.
Nell’intervista al The Washington Post Hamdallah non è entrato in
dettagli ma ha tenuto a sottolineare di voler passare per le Nazioni
Uniti e non per un dialogo diretto con la controparte. Ha però poi
aggiunto che l’Anp ha ricevuto dagli Usa l’assicurazione di una ripresa
dei negoziati dopo il 30 giugno, dopo la sigla dell’accordo con l’Iran.
Alla fine, pare che l’Autorità Palestina voglia comunque
passare per il dialogo con Tel Aviv, come se una risoluzione Onu ma
soprattutto il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese
debbano essere – ancora una volta – oggetto di negoziato.
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