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02/06/2015

Israele - Obama attacca Bibi, "L'accordo con l'Iran si farà"

“Posso, penso, dimostrare non basandomi su speranze ma su fatti, prove e analisi, che il miglior modo per impedire all’Iran di avere l’arma nucleare sia attraverso un accordo verificabile e resistente”.

Così il presidente Obama ha risposto ieri al premier Netanyahu a casa propria: in un’intervista rilasciata a Channel 2 è tornato sulla questione che da mesi tiene sulla graticola i vertici di Tel Aviv e che ha aiutato a erodere i rapporti personali con il primo ministro Netanyahu.

Nessuna azione militare – quella che Tel Aviv e Riyadh sognano da tempo – ma un accordo negoziato è per Obama l’unica via per tenere a bada la Repubblica degli Ayatollah: “Una soluzione militare non metterà le cose a posto, anche se partecipassero gli Stati Uniti. Ritarderebbe temporaneamente il programma nucleare iraniano, ma non lo eliminerebbe”.

Quasi una rivincita quella che si è presa ieri Obama, dopo che i primi di marzo Netanyahu – a due settimane dal voto in Israele – si presentò non invitato dalla Casa Bianca al Congresso per lanciare strali e accuse contro l’accordo del 5+1 su Teheran, riscuotendo grande successo tra i repubblicani. Bibi ha paura, la stessa paura che hanno i sauditi: perdere il nemico numero uno, vedere l’Iran che entra dalla porta principale nella comunità internazionale e tessere normali rapporti economici e militari con il resto del mondo, e quindi assistere impotenti all’evaporazione del monopolio di alleati di ferro di Washington.

Ancora domenica, in un incontro con il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, il premier israeliano tornava a ripetere il suo mantra: l’Iran “è la più grande minaccia alla sicurezza di Israele, alla stabilità della regione e alla pace del mondo”. Obama da parte sua non molla, consapevole che un simile accordo (che dovrebbe essere finalizzato il 30 giugno) è l’unica possibilità di salvare in corner un’amministrazione che sul Medio Oriente ha fallito, dall’avanzata dell’Isis allo spezzettamento dell’Iraq fino al mancato processo di pace tra israeliani e palestinesi.

Già, il processo di pace. A disturbare l’intransigenza del nuovo governo di ultradestra israeliano ci si mettono ora anche i palestinesi, sempre – a quanto pare – con lo zampino dell’alleato-avversario Obama. Secondo quanto dichiarato ieri dal primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Rami Hamdallah, la Francia sta coordinato insieme agli Stati Uniti un’iniziativa alle Nazioni Unite che individua i tempi del ritiro israeliano dai Territori Occupati e la creazione di uno Stato di Palestina. Entro il 2017, 18 mesi per giungere ad un accordo finale.

“Sul tavolo c’è un’iniziativa francese, coordinata con gli Usa – ha detto il premier palestinese al The Washington Post – Parlano di un tempo limite. Questa risoluzione Onu può individuare un periodo entro il quale terminare l’occupazione e creare uno Stato entro i confini del ‘67”.

Una volta, ha aggiunto Hamdallah, che la risoluzione sarà passata, si potrà tornare al tavolo del negoziato con Israele. Tel Aviv da parte sua gioca lo stesso gioco: Netanyahu domenica ha detto al ministro tedesco di essere pronto al negoziato “senza precondizioni”. Per poi porne subito due: uno Stato palestinese demilitarizzato e il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico.

Nell’intervista al The Washington Post Hamdallah non è entrato in dettagli ma ha tenuto a sottolineare di voler passare per le Nazioni Uniti e non per un dialogo diretto con la controparte. Ha però poi aggiunto che l’Anp ha ricevuto dagli Usa l’assicurazione di una ripresa dei negoziati dopo il 30 giugno, dopo la sigla dell’accordo con l’Iran.

Alla fine, pare che l’Autorità Palestina voglia comunque passare per il dialogo con Tel Aviv, come se una risoluzione Onu ma soprattutto il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese debbano essere – ancora una volta – oggetto di negoziato.

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