Il primo elemento da considerare è proprio quello della militarizzazione del suffragio portata avanti con l’obiettivo di fermare la protesta annunciata di vari settori politici e sociali. Oltre 15 mila membri di esercito, marina, polizia federale e gendarmeria sono stati inviati dal governo centrale a blindare le sezioni elettorali nelle zone considerate più a rischio, cioè gli stati del Guerrero, Oaxaca, Chiapas e Michoacán. A questi, vanno aggiunte le forze di polizia statali e municipali, che pure hanno partecipato all’enorme operazione di militarizzazione. Un ruolo di primo piano l’hanno avuto anche le squadre di picchiatori al soldo dei partiti, soprattutto del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale) e del PVM (Partito Verde Ecologista), i famigerati “grupos de choque” i quali, con pietre, machete e bastoni hanno attaccato i manifestanti in diverse località.
Nonostante il grande spiegamento di forze, la protesta si è comunque tenuta in differenti stati raggiungendo una significativa intensità soprattutto in quelli del Guerrero e Oaxaca. Nel primo, il movimento è sceso in piazza nelle principali città, ed è riuscito a invalidare le elezioni a Tixla, sede della scuola normale rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa e di cui sono originari 14 dei 43 studenti scomparsi lo scorso 26 settembre. Qui, a partire dalle 7 di mattina, cinque brigate guidate da familiari e compagni dei desaparecidos hanno iniziato un tour per il municipio, durante il quale sono riuscite a confiscare e dare fuoco alle schede e al materiale elettorale di 28 sezioni sulle 50 che avrebbero dovuto aprire.
Una volta dichiarata la nullità del processo elettorale nel municipio, sono entrati in scena gruppi di picchiatori legati al PRI e al Partito della Rivoluzione Democratica (PRD, centrosinistra), i quali hanno sgomberato con violenza il municipio e l’auditorium occupati dall’ottobre scorso da studenti e docenti di Ayotzinapa ferendo tre persone. Essendo riusciti a invalidare le elezioni, per evitare provocazioni e inutili scontri, i manifestanti sono poi ritornati alla scuola normale, mentre nel corso del pomeriggio di domenica il gruppo di aggressori ha dovuto abbandonare l’edifico in seguito alle pressioni degli abitanti.
Nella città di Tlapa de Comonfort, la tensione è iniziata nel primo pomeriggio, quando due camionette della polizia federale hanno fatto irruzione nel quartiere Tepeyac per perquisire la sede della CETEG (Coordinadora Estatal Trabajadores de la Educación-Guerrero, un battagliero sindacato degli insegnanti), in prima linea in questi mesi a fianco dei normalisti e nelle mobilitazioni indette per boicottare le operazioni elettorali. L’intervento poliziesco, portato avanti senza mandato alcuno, ha portato all’arresto violento di otto docenti e ha fatto indignare gli abitanti della zona, i quali, in seguito a una successiva operazione di polizia ai danni degli insegnanti, si sono organizzati insieme ai docenti per impedire agli agenti di uscire dal quartiere. A questo punto è iniziata una trattativa tra alcuni rappresentanti del Centro per i Diritti Umani della Montagna di Tlachinolan e le forze dell’ordine, che si è conclusa con la decisione di liberare i docenti in cambio dei 35 poliziotti che nel frattempo erano stati rinchiusi dagli abitanti in una cappella.
Malgrado gli accordi presi, però, verso le 20 la polizia federale, secondo molte testimonianze appoggiata anche dal XCIII battaglione fanteria di Tlapa, è entrata con violenza all’interno del quartiere, rastrellando le case alla ricerca dei leader del sindacato dei maestri e sparando lacrimogeni, pallottole di gomma e proiettili veri e propri. Uno di questi ha colpito al petto il ventottenne Antonio Vivar Díaz, da poco diplomatosi come docente all’Universidad Pedagógica Nacional (UPN) e padre di un bambino di 8 mesi. Nel corso dell’aggressione poliziesca, durata fino a mezzanotte inoltrata, sono state arrestate sette persone e ne sono state ferite almeno 4.
Cortei e iniziative sono stati realizzati anche in altri municipi guerrerensi. In questi casi, tuttavia, l’imponente presenza militare ha impedito che il movimento potesse bloccare il regolare svolgimento delle elezioni. Risultato invece raggiunto nello stato di Oaxaca, in cui a guidare la protesta sono stati i professori della Coordinadora Nacional de los Trabajadores de la Educaión (CNTE), in sciopero da lunedì scorso contro il processo elettorale e per l’abrogazione della (contro) riforma educativa. In questo stato sono state invalidate l’8.3% delle sezioni istallate, mentre sono state arrestate un centinaio di persone, soprattutto aderenti alla CNTE e al Frente Popular Revolucionario (FPR).
Tra le varie aggressioni, va segnalata quella denunciata dalla comunità autonoma di Alvaro Obregón, nel municipio di Juchitán, dove un gruppo di uomini in borghese legati all’amministrazione comunale ha fatto fuoco sulla popolazione ferendo sei persone, di cui tre sono in condizioni gravi. Inoltre, a Tuxtepec, familiari della maestra Sandra Herrera hanno denunciato la sua scomparsa dopo che questa è stata fermata da elementi della Segreteria della Difesa Nazionale (Sedena). Sempre nel municipio di Juchitán, infine, la popolazione ha opposto resistenza all’ingresso dell’esercito, mentre a Salina Cruz i manifestanti sono riusciti a far ripiegare gli effettivi della Marina mobilitati dal governo.
Altre iniziative importanti si sono verificate in Chiapas e in Michoacán. In quest’ultimo stato le elezioni sono state rifiutate dagli indigeni dell’altipiano purépecha, i quali hanno bloccato l’accesso alle loro comunità impedendo la realizzazione delle elezioni nei municipi di Urio, Zicambato e Cherán, dove da quattro anni si sta lavorando alla costruzione di un autogoverno comunitario basato sui principi dell’orizzontalità e della revocabilità del mandato tipici della tradizione politica indigena.
A livello nazionale non sono state istallate un totale di 603 sezioni, la cifra più alta dal 1991 a questa parte, il che, al di là dell’ottimismo delle autorità, rappresenta un segnale della distanza esistente tra rappresentanti e i (non)rappresentati nel Messico della guerra al narco, in cui politica, impresa e mafia vanno a braccetto e a farne le spese è la cittadinanza, con migliaia di morti e desaparecidos e con la drastica riduzione dell’agibilità politica nel paese.
Per quanto riguarda i risultati, il vincitore assoluto è il partito degli astenuti che supera il 50%. Buono invece l’esordio elettorale di Morena (Movimiento de Regeneración Nacional), il nuovo partito di Lopez Obrador, il candidato di centrosinistra sconfitto nelle ultime due elezioni, considerate fraudolente da buona parte della popolazione, che diventa il primo partito nella capitale e arriva quarto a livello nazionale dopo il PRI, il PAN (Partido de Acción Nacional, di destra) e il PRD, in piena crisi di consensi. Rispetto alla conquista del governo degli stati, delle nove governature in ballo, cinque se le è aggiudicate il PRI (Guerrero, Sonora, Campeche, San Luís Potosí e Colima), due il PAN (Querétaro e Baja California Sur) e una, rispettivamente il PRD (Michoacán) e un candidato indipendente (Nuevo Leon).
Insomma, alla luce di quanto descritto nelle elezione di domenica scorsa non si è trattato di una festa civica e della democrazia. Al contrario, gli elementi di insofferenza e scontento da parte della popolazione paiono alquanto evidenti, e sono preoccupanti in questo senso i segnali dati dal governo, il quale ha risposto alla protesta legittima di cittadini e organizzazioni militarizzando il paese e impedendo nei fatti il diritto al dissenso e alla mobilitazione. Imponendo cioè l’esercizio elettorale attraverso la pressione militare e dei gruppi d’assalto legati ai partiti e ai narcos, come denunciano in questi giorni diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le quali, inoltre, mettono in guardia di fronte ad una possibile regressione autoritaria.
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