Due storie che a prima vista non hanno molto in comune se non la produzione di automobili. Il dieselgate
della Volkswagen e la bocciatura, da parte dei lavoratori, dell’accordo
alla Chrysler in realtà hanno tra gli attori protagonisti i due potenti
sindacati metalmeccanici: la Ig-Metall tedesca e la United
Automobile Workers statunitense. Due attori che spesso hanno fatto due
parti in commedia ma che ora mostrano sempre più difficoltà a mettere in
pratica i trucchi di scena. Il sindacato tedesco è stato stranamente
sobrio nelle dichiarazioni e nelle prese di posizione in tutta la
vicenda della truffa del software che doveva controllare le emissioni
inquinanti dei motori diesel. La spiegazione si può trovare guardando
come funziona la governance duale della multinazionale tedesca. La Volkswagen è governata su due livelli formalmente distinti: un Consiglio di amministrazione e un Consiglio di sorveglianza.
Il primo, composto da 10 membri, si occupa del management aziendale e
finanziario. Il secondo, composto da 20 membri, nomina l’amministratore
delegato e stabilisce le linee strategiche degli interventi economici,
produttivi e finanziari. Nel Consiglio di sorveglianza siedono 9 rappresentanti della Ig-Metall,
2 rappresentanti del governo socialdemocratico-verde della Bassa
Sassonia – che, pur possedendo solo il 14% delle azioni e il 20% del
diritto di voto, ha il potere di veto – 2 rappresentanti degli azionisti
del Qatar (16% tra governo e Qatar Holding), 4 rappresentanti della
famiglia Porsche – 31% delle azioni e il 50,7% del diritto di voto –,
mentre i rimanenti rappresentano i consigli di amministrazione della
Volkswagen, dell’Audi e gli azionisti privati tedeschi e istituzionali
esteri. Questa la fotografia di un capitalismo contemporaneo che
intreccia sindacati, istituzioni, governi, capitali nazionali, esteri e
transnazionali, dove le alleanze mutano a seconda degli
interessi e delle visioni strategiche. La Ig-Metall in questi anni è
stata l’esempio della geometria variabile di queste alleanze, prima con
la Porsche, poi con il governo della Bassa Sassonia. Non convincono le
interpretazioni che assegnano al sindacato tedesco il ruolo di un
ostaggio tenuto all’oscuro o, al massimo, di un complice sprovveduto, ma
non certo quello di essere responsabile al pari di tutti gli altri
delle scelte strategiche dell’azienda che produce più auto al mondo.
Perché, a scanso di equivoci, è evidente che la truffa del software
taroccato è stata una scelta strategica della Volkswagen. È il modello di gestione della forza-lavoro che entra in causa nell’atteggiamento e nelle scelte della Ig-Metal. Un modello che ha come presupposto la riproduzione della struttura sindacale,
del suo potere, delle sue pratiche, del suo peso politico,
installandosi al vertice dei luoghi decisionali dell’impresa
capitalistica. Il consenso all’organizzazione sindacale, per non dire la
fidelizzazione, si costruisce combinando i servizi di tutela
individuale del singolo lavoratore e non più del collettivo, con la
dimensione strategica e decisionale del ruolo ricoperto all’interno
dell’azienda. Siamo molto oltre la vecchia visione classica, che alcuni vorrebbero applicare anche in Italia, della cogestione tedesca
in cui il sindacato aveva una funzione di controllo della politica
imprenditoriale e di redistribuzione, tra i lavoratori, di una piccola
quota percentuale dei profitti.
La United Automobile Workers
statunitense, prima del voto alla Chrysler, era reduce da due batoste di
non poco conto subite negli ultimi tre anni. La sconfitta nel
referendum che aveva promosso nel Michigan, una delle sue roccaforti,
per riaffermare l’obbligatorietà dell’iscrizione al sindacato per essere
assunti attraverso le quote, previste dai contratti di lavoro, gestite
sindacalmente e per consolidare l’automatismo delle trattenute in busta
paga per dei «diritti sindacali di negoziazione» anche per i non
iscritti al sindacato. La seconda batosta era arrivata l’anno scorso con
il referendum sulla rappresentatività dell’UAW nella più grande
fabbrica americana della Volkswagen. Un referendum perso nonostante
l’appoggio dell’azienda. Poi, sindacato e azienda si sono accordati per
cambiare le regole e permettere al sindacato metalmeccanico di essere il
solo «rappresentante» dei lavoratori. Ora la bocciatura con il
65% degli iscritti al sindacato contrari all’accordo tra UAW e
Marchionne sul contratto di lavoro alla Chrysler. Nella tornata
contrattuale precedente, ottobre 2011, il sindacato americano era
riuscito a racimolare un 55% di favorevoli dopo aver operato brogli di
varia natura e non aver informato correttamente i lavoratori sui reali
contenuti del contratto. Anche questa volta sia Marchionne sia Williams –
nuovo presidente della UAW – davano per certa l’approvazione, tanto che
si erano sbilanciati in dichiarazioni rassicuranti prima del voto. Il
nuovo contratto, a parte piccoli aumenti salariali, è la fotocopia del
precedente. C’è la riconferma del doppio livello salariale a parità di
mansioni a seconda se si è stati assunti prima o dopo il 2007. La
differenza salariale oscilla tra il 30-35% in meno per i lavoratori, che
sono circa il 45% del totale, entrati alla Chrysler negli ultimi 8
anni, cioè dopo i salvataggio dell’azienda con il denaro portato da
Obama. E non manca nemmeno la promessa del solito bonus di 2-3 mila dollari legato all’andamento del mercato, a completa discrezione dell’azienda. In compenso, si fa per dire, c’è l’estensione di un’organizzazione del lavoro basata sulla World Class Manufactoring, un combinato disposto di toyotismo e taylorismo.
Le votazioni negli 11 siti Chrysler sono durate un paio di settimane
con seggi volanti che apparivano e sparivano o erano aperti solo di
domenica e in nessuna occasione sono stati illustrati tutti i contenuti
del contratto. Durante le assemblee organizzate dalla UAW i funzionari
sindacali, come del resto negli accordi precedenti, hanno rivendicato il
«diritto» del sindacato di informare i lavoratori su alcuni «dettagli»
del contratto solo dopo il voto. E fin qui tutto «normale», come da
prassi consolidata nella UAW. Ma stavolta c’è stato un imprevisto, i lavoratori. Si sono organizzati fuori dei luoghi di lavoro,
sui social network e, fatto inedito, facendo alcuni piccoli presidi
davanti a un paio di sedi della UAW. Hanno stampato migliaia di T-shirt,
aperto una miriade di profili facebook pubblici e privati,
mailing-list, hashtag twitter per discutere del contratto,
delle modalità antidemocratiche delle votazioni, per confrontare i
salari. A questo proposito c’è da dire che votano solo gli iscritti al
sindacato, che alla Chrysler sono circa 40 mila su un totale dei
dipendenti che è quasi il doppio. E di questi 40 mila non è quasi mai
dato sapere quanti realmente si esprimono con il voto. Non è
certamente un esempio di democrazia sindacale da imitare, come sostenuto
dal leader di una FIOM nazionale in «progressiva coalizione».
Il contratto è stato bocciato dalla maggioranza dei lavoratori, con
punte oltre l’80% come nel Local 12 di Toledo in Ohio. Hanno usato forme
di comunicazione, discussione e organizzazione del consenso che in
larga parte hanno bypassato la struttura sindacale in quanto tale,
aprendo in questo modo il problema della rappresentatività del sindacato
unico. La UAW, questo conglomerato che raggruppa una holding
finanziaria dei fondi pensione, una struttura sindacale,
un’organizzazione che gestisce quote di forza-lavoro in cerca di
occupazione e uno staff permanente di sostegno al Partito democratico,
dopo la sconfitta alla Chrysler prenderà delle contromisure. Una crepa comunque si è aperta, si tratterà di vedere quanto profonda.
Forse non aveva tutti i torti Etienne Balibar quando, più o meno una trentina di anni fa, scriveva che «è
sempre arrivato un momento in cui il movimento operaio doveva
ricostituirsi contro le pratiche e le forme di organizzazione esistenti.
Per questo motivo le scissioni, i conflitti ideologici (riformismo e
rotture rivoluzionarie), i dilemmi classici e sempre rinascenti dello
“spontaneismo” e della “disciplina” non costituiscono degli incidenti,
ma la sostanza stessa di questo rapporto». Ammettiamo pure che non
avesse ragione allora, ma oggi?
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