di Tania Careddu
Morire di fame: nel 2015, non è più la locuzione per indicare la
povertà. Lo è maggiormente al passo coi tempi, vivere di stenti. Si,
perché, stando ai dati riportati nel dossier Povertà plurali della
Caritas, il disagio economico non può essere riconducibile solo alla
carenza di alimenti tout court (sebbene l’Italia si collochi all’ottava
posizione nella classifica europea e presenti valori percentuali sopra
la media). Negli ultimi tre anni, infatti, non si registra un
particolare aumento di richieste di viveri (anzi), bensì di aiuti
economici.
E non si faccia ricorso (di default) alla congiuntura
finanziaria negativa: la povertà, nel Belpaese, è una costante storica.
Con tendenza alla cronicizzazione. Tant’è che, nell’ultimo decennio, ha
subìto un vero e proprio processo di “normalizzazione sociale”. Un
consolidamento del disagio, insomma, che è ancora più grave del disagio
materiale.
Sebbene questo sia, ovviamente, l’ambito più problematico della
deprivazione: dai bisogni occupazionali - scenario in cui si sconta sia
la strutturale assenza di una misura universalistica di contrasto alla
povertà sia il deficit contestuale della rete dei servizi sociali - ai
disagi abitativi. Dai problemi familiari a quelli di salute; da quelli
legati all’immigrazione a quelli connessi alla giustizia; da quelli
relativi all’istruzione a quelli legati alla vulnerabilità delle
dipendenze.
Oltreché vestiario e accesso alla mensa, coloro che
necessitano d’aiuto chiedono sussidi economici da impiegare per il
pagamento delle utenze, delle tasse, delle spese sanitarie e delle rate
del mutuo. Per chi ancora ha una casa. Ma sono sempre più numerosi i
nuclei famigliari che vivono una situazione di anomalia alloggiativa,
con transitorietà residenziale e potenziale precarietà
socio-relazionale. Soggetti a sfratto o a ipoteca. In alloggi spesso
collocati in territori segnati da criminalità e degrado, da carenza di
servizi e di collegamenti logistici. In abitazioni “strutturalmente
danneggiate”, di “ridotte dimensioni” o poco luminose.
Il
41,4 per cento delle persone che presentano un “mix di bisogni”, è di
cittadinanza italiana, con un peso sempre più marcato nel corso degli
anni, il 58 per cento straniera, principalmente romena e marocchina,
presente soprattutto nel Settentrione e nel Centro.
Italiani mediamente meno giovani, over quarantaquattrenni, degli
stranieri, fra i quali prevalgono gli under quarantacinque. Sposati e
genitori, con in tasca una licenza media inferiore (fra gli stranieri è
più alto il peso dei diplomati e dei laureati). E tantissimi
disoccupati, pensionati e casalinghe, soprattutto del Mezzogiorno.
“Un
Paese con una composizione demografica nella quale è rilevante la
percentuale di anziani e una condizione giovanile problematica, insieme a
forti diseguaglianze che concentrano le ricchezze solo su alcuni
percentili di popolazione, la redistribuzione globale in atto, il
rallentamento della crescita di alcune aree continentali e
un’innovazione tecnologica che non produce occupazione” fa pensare a un
contesto in cui la presenza della povertà e dell’esclusione sociale sarà
un tratto di fondo dello scenario. Dicono gli esperti. Poveri di
speranza.
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