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25/10/2015

Povertà cronica

di Tania Careddu

Morire di fame: nel 2015, non è più la locuzione per indicare la povertà. Lo è maggiormente al passo coi tempi, vivere di stenti. Si, perché, stando ai dati riportati nel dossier Povertà plurali della Caritas, il disagio economico non può essere riconducibile solo alla carenza di alimenti tout court (sebbene l’Italia si collochi all’ottava posizione nella classifica europea e presenti valori percentuali sopra la media). Negli ultimi tre anni, infatti, non si registra un particolare aumento di richieste di viveri (anzi), bensì di aiuti economici.

E non si faccia ricorso (di default) alla congiuntura finanziaria negativa: la povertà, nel Belpaese, è una costante storica. Con tendenza alla cronicizzazione. Tant’è che, nell’ultimo decennio, ha subìto un vero e proprio processo di “normalizzazione sociale”. Un consolidamento del disagio, insomma, che è ancora più grave del disagio materiale.

Sebbene questo sia, ovviamente, l’ambito più problematico della deprivazione: dai bisogni occupazionali - scenario in cui si sconta sia la strutturale assenza di una misura universalistica di contrasto alla povertà sia il deficit contestuale della rete dei servizi sociali - ai disagi abitativi. Dai problemi familiari a quelli di salute; da quelli legati all’immigrazione a quelli connessi alla giustizia; da quelli relativi all’istruzione a quelli legati alla vulnerabilità delle dipendenze.

Oltreché vestiario e accesso alla mensa, coloro che necessitano d’aiuto chiedono sussidi economici da impiegare per il pagamento delle utenze, delle tasse, delle spese sanitarie e delle rate del mutuo. Per chi ancora ha una casa. Ma sono sempre più numerosi i nuclei famigliari che vivono una situazione di anomalia alloggiativa, con transitorietà residenziale e potenziale precarietà socio-relazionale. Soggetti a sfratto o a ipoteca. In alloggi spesso collocati in territori segnati da criminalità e degrado, da carenza di servizi e di collegamenti logistici. In abitazioni “strutturalmente danneggiate”, di “ridotte dimensioni” o poco luminose.

Il 41,4 per cento delle persone che presentano un “mix di bisogni”, è di cittadinanza italiana, con un peso sempre più marcato nel corso degli anni, il 58 per cento straniera, principalmente romena e marocchina, presente soprattutto nel Settentrione e nel Centro.

Italiani mediamente meno giovani, over quarantaquattrenni, degli stranieri, fra i quali prevalgono gli under quarantacinque. Sposati e genitori, con in tasca una licenza media inferiore (fra gli stranieri è più alto il peso dei diplomati e dei laureati). E tantissimi disoccupati, pensionati e casalinghe, soprattutto del Mezzogiorno.

“Un Paese con una composizione demografica nella quale è rilevante la percentuale di anziani e una condizione giovanile problematica, insieme a forti diseguaglianze che concentrano le ricchezze solo su alcuni percentili di popolazione, la redistribuzione globale in atto, il rallentamento della crescita di alcune aree continentali e un’innovazione tecnologica che non produce occupazione” fa pensare a un contesto in cui la presenza della povertà e dell’esclusione sociale sarà un tratto di fondo dello scenario. Dicono gli esperti. Poveri di speranza.

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