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25/10/2015

Da Bologna una riflessione sulla strategia della tensione e sul terrorismo di stato in Turchia

Ieri al Terzo Piano di Via Irnerio a Bologna è stata organizzata – ospite Marco Santopadre  di Contropiano – un’iniziativa per provare a far luce sul contesto mediorientale dopo la strage di Ankara. Un tentativo di tracciare un bilancio della vicenda curda e turca a partire da un parallelismo tra i fatti che stanno in questi mesi scrivendo la storia in Turchia e quelli che hanno segnato la storia dell’Italia a suon di stragi di stato negli anni Sessanta e Settanta.

A partire dalla centralità che ha acquistato di nuovo il Medio Oriente nella riscrittura dei rapporti di forza mondiali in uno scenario di fortissima competizione globale, è imprescindibile infatti provare a capire chi siano veramente i manovratori di questo conflitto e quale sia la vera posta in gioco, riconoscendo le strategie messe in campo dai singoli attori.

La bomba di Ankara si inserisce infatti perfettamente nella stessa dinamica della strategia della tensione da noi ben conosciuta, dove il clima di terrore viene creato, alimentato e manovrato ai fini di congelare ogni serio cambiamento sociale e politico e per stoppare una eventuale crescita dell’opposizione.

Gli occhi su questo paese, la Turchia, i nostri media mainstream hanno però a iniziato a puntarli solamente a partire da un anno fa, quando la resistenza curda di Kobane era improvvisamente ben vista da giornali e tv che potevano utilizzarla e inserirla  all’interno della loro ricostruzione della campagna bellica contro il “nemico comune”, ossia lo Stato Islamico.

Le donne guerrigliere erano indubbiamente un soggetto di grande impatto mediatico, poco importa che la loro guerra fosse diretta contro il “barbarico Islam” o anche alla liberazione di un popolo oppresso e negato con la complicità di quelle potenze che ora non si indignano neanche di fronte alle efferate stragi che insanguinano le città turche e curde.

Ora non sono più il relativamente lontano mondo della guerriglia o i villaggi di un Kurdistan sistematicamente negato ad essere colpiti, ma il centro di Ankara, il centro di un paese perfettamente in linea con la politica imperialista di quell’occidente che tanto sembrava ammirare e supportare le immagini di queste donne con le armi in bella vista.

Colpire il centro di Ankara significa colpire un blocco di opposizione che grazie alla strategia del partito HDP, unisce ora organizzazioni curde, sindacati, organizzazioni comuniste turche, oltre a islamisti non concordi con la politica erdoganiana, il cui obbiettivo non è più soltanto legato alla questione curda ma punta ad un rafforzamento nella lotta politica nazionale.

Di fronte a questo attacco l’Occidente non denuncia colpevoli ma finge di rammaricarsi per questo male del mondo che tanto comodamente unisce terrorismo ad Islam. Rimane silente perché il blocco di opposizione creatosi in Turchia fa paura al governo turco che si avvicina alle urne, così come intimorisce i governi occidentali, entrambi all’interno dello stesso sistema ed entrambi artefici della stessa politica: quando il potere diventa debole e il suo nemico si organizza, creare il caos per ripristinare l’ordine sembra la strada vincente.

La strategia della tensione in Turchia può attecchire ora come non mai alla fine di un decennio di potere erdoganiano e di apparente crescita economica con il conseguente sviluppo dei consumi e la creazione di una nuova classe media che invoca un immediato ripristino dell’ordine, anche di un ordine totalitario, pur di non perdere i benefici acquisiti.

Oltre che volta a sedare l’opposizione, questa tattica risulta particolarmente vincente per il regime nel territorio del Kurdistan, dove grazie alla proclamazione dello stato di emergenza può avere ancora più libertà nell’eliminare fisicamente le diverse forme di resistenza, arrivando a bombardare città e villaggi nel proprio stesso territorio oltre che a Qandil, sulle montagne irachene.

La repressione in atto che ha portato all’arresto di numerosi militanti e politici di opposizione (di qualche giorno fa è la notizia dell’arresto di 10 militanti dell’HDP ad Osmanye, oltre che del direttore del quotidiano Zaman) e agisce anche attraverso il completo controllo dei mezzi di comunicazione, dal blocco di numerosi canali televisivi, ai siti di informazione, al controllo dei social network.

Assistiamo così, due giorni prima delle elezioni del 7 Giugno, a due esplosioni ad un comizio elettorale dell’Hdp a Diyarbakir, poi il 20 luglio a Suruc ed ancora il 10 ottobre ad Ankara.

Diventiamo spettatori di assedi a città come quello di Cizre, durato 10 giorni, e durante il quale l’esercito ha ucciso più di venti persone; e poi a quello in corso a Lice, città da cui non si ricevono più notizie; al probabile bombardamento con armi chimiche denunciato a Dersim; agli scontri ancora in corso a Silvan nella regione di Diyarbakir, ad Hakkari e in tanti altri villaggi nella zona di Van, dove le squadre di autodifesa curde stanno resistendo, in un Kurdistan completamente militarizzato. Le strade di accesso a molte città sono bloccate o controllate dall’esercito, in territori dove molto spesso le montagne sono in mano alla guerriglia e quindi allo stato inaccessibili via terra. La risposta del KCK non si è fatta attendere e di fronte ad un cessate il fuoco come sempre unilaterale da parte della guerriglia, il movimento curdo continua ad organizzare la resistenza con squadre di autodifesa cittadine che proteggono le comunità che hanno proclamato l’autogoverno democratico.

Ma con le elezioni imminenti, lo stato d’emergenza decretato dal governo legittima anche lo spostamento dei seggi elettorali in alcune regioni e l’invio dei militari a presidiare le urne. Un modo per impedire il libero esercizio del voto a centinaia di migliaia di potenziali elettori dell’Hdp.

Il discorso di Demirtas, portavoce del partito HDP, pronunciato immediatamente dopo la strage di Ankara è stato una chiara denuncia e accusa alla politica di un Erdogan pronto a tutto pur di recuperare un consenso che si sta sgretolando dal piano interno a quello internazionale. Le allucinanti accuse lanciate dal ‘sultano’ al Pkk, che secondo Erdogan sarebbe in combutta con lo Stato Islamico, entrambi autori del massacro dei militanti dell’Hdp e di vari gruppi di sinistra, parlano da sole, rappresentando un tentativo davvero inaccettabile di presentarsi come l’unico possibile paladino della stabilità e dell’ordine in Turchia.

Se la tattica erdoganiana stia funzionando o meno lo sapremo esattamente tra una settimana, dopo le elezioni che diventeranno catalizzanti per il disegno della situazione interna turca e mediorientale.

Gli scenari possibili – che Erdogan ottenga o meno la maggioranza assoluta – parlano comunque di una situazione esplosiva. Un eventuale governo dell’Akp, in solitaria o in coalizione con i fascisti dell’Mhp, scatenerebbe un alto livello di conflitto; d’altra parte una ennesima sconfitta di Erdogan e l’impossibilità di formare un governo potrebbe spingere gli islamisti ad acuire terrorismo di stato e strategia della tensione.

Che dietro alle rivendicazioni vere o presunte delle stragi da parte dell’Isis ci siano in realtà gli apparati di intelligence dello stato turco – il sostegno di Ankara ai miliziani jihadisti non è certo un segreto – poco importa.

In Italia come in Turchia, la strumentalizzazione del “terrorismo” sembra essere la strada maestra per legittimare una repressione assassina e coprire le stragi di stato.

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