Ad una decina di giorni dal tragicomico epilogo della giunta Marino, forse è il momento di un bilancio e di guardare ai compiti che ci aspettano nei prossimi mesi. Soprattutto perché già si fa strada la retorica del “menopeggio” e del sindaco “di sinistra” contro il ceto dirigente Pd. Partiamo dal nodo politico che si dipana da questa vicenda, le cui radici sono lontane e le cui ricadute hanno un inevitabile peso anche nazionale, visto il ruolo di Roma nelle scelte politiche generali. La débâcle del chirurgo dem e della sua giunta, caduto sulla buccia di banana degli scontrini, è maturata tutta all’interno della lotta intestina che nell’ultimo anno ha dilaniato la potente macchina clientelare del Pd e dalle pressioni crescenti del Vaticano. Il commissariamento cittadino del Partito democratico, seguito alle note vicende dell’inchiesta giudiziaria “Mafia capitale”, ha accelerato questa resa dei conti. Marino, il dem dalla spocchia antipopolare, l’uomo della “società civile” prestato alla politica, il volto “nuovo” delle primarie del Pd romano, ci ha messo del suo in questa tragica e grottesca vicenda. Nelle periferie di questa città, degradata e dissestata, dove più forte è il morso della crisi sociale ed economica, questa giunta è stata sempre più vista come il solito giro di politici e burocrati distanti dai bisogni delle masse popolari, dalle esigenze concrete della città, la città che lavora, studia e che fatica ad arrivare alla fine del mese. Una città in cui la sinistra liberista e affarista si è fatta apparato di governo e clientelare, ha consolidato posizioni di potere e di controllo in ogni campo della vita cittadina. Marino è in qualche modo l’ultimo capitolo e speriamo l’epigono di questo blocco di potere. In particolare nell’ultimo anno questa giunta ha sferrato continui attacchi al mondo del lavoro pubblico, tentando di farsi esecutore delle scelte assunte dal governo centrale attaccando il salario accessorio dei dipendenti comunali, scatenando una vergognosa campagna di criminalizzazione dei lavoratori dei trasporti pubblici, rei di essere responsabili del dissesto secolare del sistema di trasporti urbani.
Il “progressismo” liberal di questa giunta si è distinto nella vecchia retorica reazionaria e antioperaia di descrivere i lavoratori delle municipalizzate come improduttivi, inefficienti, insomma il problema della città. Puntando alla sistematica divisione tra utenti e lavoratori, divisione fomentata anche da una ben orchestrata campagna di stampa che va avanti da decenni. Secondo tale stratagemma, da una parte si è continuato a ridurre i lavoratori impiegati nei servizi pubblici, mentre dall’altra si è aizzata la cittadinanza contro le mancanze dei suddetti servizi, preparando il terreno verso processi di privatizzazione favoriti dalla politica “liberal” del sindaco “menopeggio”.
Chiaramente le scelte di questa giunta sono il frutto di un processo che va ben oltre le cinta di questa città, nel senso che questi amministratori sono parte di un ordine liberista a cui devono rispondere. Sono dei meri vassalli di un sistema di potere che travalica i confini nazionali. Il patto di stabilità imposto ad ogni istituzione del territorio nazionale è un vincolo reale, materiale, un diktat che non si può discutere e questa giunta inevitabilmente si è ben guardata da mettere in discussione e altrimenti non poteva essere. La città oggi è sotto assedio, commissariata, governata di fatto da mesi da un console del governo centrale, il super prefetto Gabrielli, una figura che bene fa intendere cosa significhi esautorare ogni spazio di confronto e mediazione. Per di più lo “stato di eccezione” tenderà ad essere permanente. Esattamente come a Milano, l’ideologia delle “grandi opere” impone un commissariamento di fatto delle politiche locali. Ieri era l’Expo, oggi il Giubileo, domani le Olimpiadi, e così via. C’è sempre una scusa per svuotare di significato le istituzioni locali e/o elettive per demandare i poteri esecutivi ad organi non rappresentativi.
L’abbiamo detto più volte in queste settimane: il commissariamento romano e milanese, cioè delle due città più importanti del paese, descrive il paradigma politico e anche simbolico di un paese a sovranità limitata, in cui la retorica della legalità tradisce una dinamica di gestione del potere ormai apertamente antidemocratica, persino intendendo con questo termini il mero piano liberale dei rapporti politici. Il nocciolo della crisi romana è parte della crisi nazionale. Se non si coglie questo passaggio, non si comprende nulla della vicenda romana e del marasma in cui ci troviamo. Gli spazi di libertà e agibilità del dissenso e di un’opposizione sociale e politica sono sempre più palesemente ridimensionati da una gestione “legalitaria” di ogni forma di conflitto, dallo sviluppo abnorme di un apparato di dissuasione preventiva e di controllo capillare del territorio. Non possiamo però guardare il presente con gli occhi del passato, o delle modalità tradizionali di un agire ordinario, perchè i tempi che viviamo portano con sé una tensione non ordinaria.
Per rimanere alle vicende capitoline, si apre una lunga stagione elettorale in questa città, di forzata “pax sociale” imposta dal super governo prefettizio, in cui si tenterà di dare una spallata alle forme di dissenso e di organizzazione sociale, territoriale, a partire dal mondo del movimento delle occupazioni e delle lotte sociali. La manifestazione del 2 ottobre scorso è stato un piccolo passo nella direzione di costruzione di un movimento sociale, di opposizione, nei territori e sui posti di lavoro, ma siamo solo all’inizio. Il lavoro è tanto e non può essere condotto con un approccio autoreferenziale, non ci possiamo assolutamente accontentare di quello che c’è, che è largamente insufficiente, inadatto a rappresentare un conflitto col potere costituito che abbia anche l’ambizione di generare consenso. La sfida di questi mesi è un lavoro certosino, probabilmente lento, per riannodare i fili delle tante piccole battaglie nelle periferie, unirle intorno a un programma minimo di punti su cui farsi fronte. Un programma minimo su cui costringere i soggetti politici cittadini al confronto, riuscendo ad intervenire in una campagna elettorale che non ci riguarderà ma che non possiamo ignorare. Ma la connessione del momento sociale non può bypassare il dato politico e quindi generale del confronto che abbiamo di fronte. L’organizzazione di massa e la sua rappresentanza politica sono i compiti della prossima fase politica cittadina. Non possiamo sfuggire, evitare questo punto, la politica quando è espressione pratica, concreta, risultante di pezzi di base sociale che si organizzano, diventa leva moltiplicatrice, potenza che si trasforma in atto. La politica è il senso generale del nostro lavoro, non è la somma dei nostri molteplici interventi, ma è sintesi, cioè momento di elevazione, potenziamento del nostro lavoro, che si dà un obiettivo, un traguardo.
La battaglia che si apre a Roma da qui alla prossima primavera è proprio questa, ritornare a rappresentare segmenti di classe, organizzarla sul piano concreto ma darsi anche un contenitore comune di riflessione politica, di elaborazione di idee e obiettivi praticabili, non astratti. La sconfitta del blocco di potere del Pd in questa città è un obiettivo centrale, va perseguito tenacemente, con spirito di collaborazione, praticandola innanzitutto nelle periferie di questa città e ponendosi il compito di organizzare pezzi di questa periferia. La rinascita di una sinistra popolare passa per questa strada. E’ una sfida cittadina ma anche nazionale.
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