Nel giro di pochi giorni, tre mosse rivelano maggiori dettagli sulla natura della nuova leadership del Partito Laburista britannico. Jeremy Corbyn, il parlamentare della sinistra socialista eletto, trionfalmente, alla guida del Labour a metà settembre, aveva generato una nuova ondata di esterofilia nella sinistra italiana. Non senza motivi, a ben vedere: la sua storica appartenenza al Socialist Campaign Group unita all’impegno pluridecennale a sostegno dei sindacati e della lotta per la pace lasciavano ben sperare, insieme alla capacità di pronunciare parole-chiave care al vecchio cuore operaio della Gran Bretagna (“nazionalizzazioni”, “controllo pubblico”, “edilizia popolare”), ormai ritenute tabù dall’establishment laburista. Se non altro, si diceva con curiosità, si potrà produrre una scossa all’interno di una compagine da anni asservita ai dettami del neo-liberismo, resa indistinguibile, a seguito del ventennio blairista, dalla controparte conservatrice.
La composizione del governo ombra aveva, in realtà, già fornito una possibile chiave interpretativa sul nuovo corso: la nomina di John McDonnell, membro della stessa corrente di Corbyn, alle finanze, lasciava presagire una linea di forte conflittualità con la linea economica del Governo Cameron. Di tutt’altro segno, invece, la delega agli esteri, assegnata ad Hilary Benn: figlio del vecchio leone socialista Tony, ma assai più moderato e dalla comprovata fede atlantista. Segnali chiari, dunque: forte profilo anti-austerità (nei limiti del possibile, per una formazione della socialdemocrazia classica) in politica interna, facilitato dalla collocazione all’opposizione; rassicurazioni istantanee a Washington sul ruolo da giocare sullo scacchiere internazionale, per mandare rapidamente in soffitta la foto di Corbyn con Chavez, le caute dichiarazioni contro le sanzioni alla Russia, il tiepido euroscetticismo e trent’anni di frequentazioni pacifiste.
I nodi sono venuti al pettine negli scorsi giorni, allorquando la linea del Labour ha avuto modo di dispiegarsi con la seguente “tripletta”:
- L’annuncio, da parte di Benn, della possibilità di un voto favorevole alla partecipazione a raid aerei NATO in Siria (non autorizzati dalle Nazioni Unite) da parte del gruppo parlamentare laburista [1];
- Il profilarsi di un ruolo attivo da parte del Partito Laburista nella campagna per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea in occasione del prossimo referendum [2];
- Le bacchettate rifilate al presidente cinese Xi Jinping, in occasione della sua visita di stato in Gran Bretagna, sullo stato dei “diritti umani” nel paese a guida socialista [3].
Tre mosse che iscrivono a pieno titolo il Labour di Corbyn all’interno di una consolidata tradizione politica. Quella della “sinistra dell’imperialismo”, pronta magari a combattere per lo stato sociale in casa propria, ma incapace di legare questa lotta alle piu’ ampie contraddizioni in atto a livello internazionale. La pur rispettabile e generosa storia personale di Jeremy Corbyn può poco, considerati gli attuali rapporti di forza nella burocrazia e nel gruppo parlamentare di un partito che ha ormai, da tempo, reciso le proprie radici popolari ed operaie ed ha supportato tutte le più infami imprese guerresche dell’imperialismo nordamericano.
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