Mentre la Russia impazza in Medio Oriente e stringe relazioni e alleanze inedite – per quanto precarie – con alcune delle tradizionali pedine di Washington nell’area, alla Casa Bianca si tenta di correre ai ripari per evitare di essere sbattuti fuori del tutto. E così ieri le agenzie di stampa, riportando quanto reso noto dal Washington Post, hanno battuto la notizia che il Pentagono sta facendo pressioni sull’amministrazione Obama affinché gli Stati Uniti inviino al più presto truppe di terra sia in Iraq che in Siria. Per ora si tratterebbe “solo” di forze speciali e di consiglieri militari da inviare a Baghdad, ma direttamente sulla linea del fronte e non solo a supporto dell’esercito iracheno e delle milizie sciite che lottano contro lo Stato Islamico; un appoggio per altro assai discontinuo e insufficiente, come più volte denunciato dallo stesso esecutivo di Baghdad, che non a caso ha deciso di avvicinarsi a Mosca ospitando il centro di coordinamento regionale con Iran, Siria ed Hezbollah che guida le operazioni belliche contro i jihadisti da quando il 30 settembre i Sukhoi hanno iniziato a bombardare.
Per quanto riguarda la Siria la situazione è evidentemente più complessa, visto che l’invio di truppe nel territorio di quel paese costituirebbe una aperta violazione della sua sovranità e potrebbe ingenerare un ulteriore indurimento delle relazioni con Mosca, Teheran e Damasco, già non proprio distese. Un appiglio, secondo il Washington Post, ci sarebbe: le forze speciali potrebbero essere inviate ufficialmente a supporto dei combattenti curdi e delle brigate arabe e turcomanne che hanno formato con le YPG il fronte delle Forze Democratiche Siriane, già rifornito nei giorni scorsi dai comandi statunitensi di una ingente quantità di armi e apparati logistici vista la ormai inconsistenza dell’Esercito Siriano Libero. Da quanto pare di capire dalle indiscrezioni pubblicate dal quotidiano statunitense l’intervento di Washington non mirerebbe a dare una svolta militare al conflitto, ma più che altro a tornare a pieno titolo padrone delle scenario mediorientale, tentando così di recuperare un ruolo ormai sbiadito e messo in discussione non solo dall’entrata in scena della “contro coalizione” guidata da Mosca, ma anche dalla ormai indipendenza dei vecchi alleati: petromonarchie, Turchia, Israele.
E mentre il segretario di Stato Usa John Kerry sta tentando di organizzare per venerdì a Vienna un secondo round dei colloqui sulla Siria allargando il numero degli interlocutori e coinvolgendo anche i paesi arabi e forse l’Iran, proprio da Ankara sembra venire la prima inequivocabile reazione all’annunciato aumento dell’impegno militare statunitense in Siria.
Ieri l’esercito turco ha bombardato a più riprese le postazioni dei combattenti curdi in Siria, nei dintorni della città di Tal Abyad, conquistata dalle Ypg e da alcune brigate dell’Esl e indipendenti nei mesi scorsi. Lo ha annunciato nel corso di un’intervista all’emittente televisiva turca Haber lo stesso primo ministro Ahmet Davutoglu, secondo il quale “le forze del Partito di unione democratica (Pyd) hanno sorpassato la linea rossa costituita dall’Eufrate” scatenando così i raid turchi.
Prima ancora i comandi delle Ypg avevano denunciato in una nota che “Invece di attaccare i terroristi dell’Is le forze turche attaccano le nostre postazioni difensive. Esortiamo la leadership turca a fermare l’aggressione e a rispettare le norme internazionali”.
Già la scorsa settimana il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva severamente ammonito il Pyd e le sue Unità di difesa popolare (Ypg) dal voler estendere il loro controllo sul nord del paese, lungo la frontiera turca. “Quello che vogliono è impadronirsi del nord della Siria (…) una minaccia che non siamo disposti ad accettare” aveva detto Erdogan nel corso di un comizio elettorale. Ma le cannonate indirizzate ai curdi nel fine settimana, proprio mentre a Washington si discute di inviare truppe a supporto delle Ypg, possono essere lette anche come un esplicito segnale alla Casa Bianca affinché si tenga fuori da quello che Ankara considera il suo ‘cortile di casa’ e sul quale accampa rivendicazioni – ‘no fly zone’ e ‘zona cuscinetto’ – che per ora né gli Usa né l’Ue sembrano voler soddisfare.
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