di Michele Paris
Nella notte italiana tra martedì e mercoledì è andato in scena a Las
Vegas il primo dibattito televisivo tra i cinque candidati alla
presidenza degli Stati Uniti per il Partito Democratico. Lo show,
organizzato dalla CNN, secondo i commentatori americani avrebbe visto
prevalere nettamente Hillary Clinton, anche se la serata ha rivelato più
che altro una certa inquietudine dovuta alle pressioni provenienti
dagli elettori che chiedono sempre più politiche di marca progressista a
un sistema arroccato nella difesa dei privilegi di una piccola cerchia
di super-ricchi.
Le pressioni sull’ex segretario di Stato
riguardavano in realtà anche la necessità di sfoderare una prestazione
di rilievo davanti alle telecamere, viste le difficoltà incontrate negli
ultimi mesi dalla sua campagna elettorale. Hillary ha in primo luogo
dovuto fare i conti con le ripercussioni legate al persistere della
polemica repubblicana sulle responsabilità dell’attacco integralista
all’ambasciata USA di Bengasi, in Libia, del settembre 2012.
Inoltre,
da alcuni mesi infuria la controversia sull’utilizzo da parte di
Hillary di un account di posta elettronica privato per la corrispondenza
ufficiale quando era segretario di Stato. La concorrenza in casa
democratica, poi, è apparsa molto più agguerrita del previsto in seguito
all’ascesa nei sondaggi del senatore del Vermont, Bernie Sanders, in
grado di suscitare l’entusiasmo di un numero relativamente elevato di
potenziali elettori delle primarie con il suo messaggio marcatamente
“liberal”.
Soprattutto, la ex first lady, per la sua vicinanza al
mondo degli affari e per le politiche guerrafondaie perseguite nel
corso della sua carriera e di quella del marito, suscita aperta
repulsione tra molti negli Stati Uniti e il fatto che sia diventata da
subito la favorita d’obbligo per la nomination democratica dipende quasi
esclusivamente dalla copertura mediatica che può vantare e,
soprattutto, dall’appoggio di facoltosi finanziatori.
In
generale, il dibattito di martedì ha visto tutti i partecipanti adottare
una retorica progressista per cercare di intercettare il desiderio di
giustizia sociale e di contenimento delle disuguaglianze di reddito
diffuso tra la popolazione americana. L’apparente spostamento a sinistra
del dibattito politico tra i candidati democratici dipende, oltre che
dalla disposizione di lavoratori e classe media nel paese, anche
dall’inaspettato successo fin qui della campagna di Sanders.
Il
senatore nominalmente indipendente è stato infatti il bersaglio di
svariati attacchi portati da Hillary Clinton durante il dibattito,
finendo per apparire spesso sulla difensiva. L’indubbia maggiore
dimestichezza di Hillary su palcoscenici simili ha messo in luce la
vulnerabilità di Sanders in un processo di selezione del potere che
predilige l’apparenza, ma ha anche a tratti evidenziato come siano in
larga misura vuote le pretese di quest’ultimo di rappresentare una
candidatura “anti-establishment”.
La Clinton ha ad esempio
ricordato come Sanders si sia opposto in passato a leggi sulla
restrizione del diritto di portare armi da fuoco, mentre durante la
serata è emersa nettamente l’affinità del senatore del Vermont con la
politica estera dell’amministrazione Obama, in particolare riguardo la
Siria.
Sanders, da parte sua, ha cercato di attaccare la rivale
collegandola a Wall Street e agli eccessi dell’industria finanziaria
USA. I due sfidanti hanno poi bollato come “ingenui” i rispettivi piani
per tenere sotto controllo le grandi banche, anche se la discussione ha
indubbiamente risollevato la questione della vicinanza di Hillary a
questo ambiente.
Complessivamente, né Sanders né gli altri tre
candidati uomini hanno però calcato la mano contro Hillary, nonostante
gli argomenti non sarebbero mancati. Sanders, anzi, a un certo punto
della serata ha preso le parti dell’ex senatrice di New York, quando si è
detto “stanco” di assistere alla polemica delle e-mail del Dipartimento
di Stato.
A
fare compagnia a Hillary Clinton e a Bernie Sanders a Las Vegas vi
erano gli altri tre candidati ufficiali alla nomination democratica:
l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, l’ex senatore della
Virginia, Jim Webb, e l’ex senatore ed ex governatore del Rhode Island,
Lincoln Chafee.
Molti americani hanno probabilmente conosciuto solo martedì i tre
candidati minori, i quali, pur cercando di differenziare in qualche modo
le loro posizioni da quelle di Hillary e di Sanders, hanno finito per
fare da contorno ai due protagonisti della sfida in ambito democratico.
Se
il dibattito non ha registrato particolari attacchi personali tra i
candidati, come è accaduto invece frequentemente nei primi due già
andati in scena tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca,
nondimeno il confronto di Las Vegas ha fornito qualche motivo di
interesse per lo più ai media ufficiali e agli addetti ai lavori.
La
retorica “liberal” ostentata da Hillary durante la serata, così come
nelle ultime settimane, è poco più di una farsa per occultare
l’inclinazione chiaramente e tradizionalmente destrorsa della famiglia
Clinton, sia sui temi economici sia su quelli legati alla sicurezza
nazionale e alla politica estera.
Lo stesso Bernie Sanders è a
sua volta parte integrante del sistema da quasi tre decenni e, pur
auto-definendosi talvolta “socialista”, ha quasi sempre votato con il
Partito Democratico, di cui non fa parte in maniera formale. Non solo,
Sanders ha nel suo curriculum al Congresso di Washington voti
censurabili, come quelli a favore dell’aggressione americana contro la
Serbia nel 1999 e della cosiddetta Autorizzazione all’Uso della Forza
Militare dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che consentì
l’invasione dell’Afghanistan e il lancio della “guerra al terrore”.
In
questi mesi di campagna elettorale, Sanders ha cercato spesso di
evitare le questioni di politica estera ma, quando pressato, ha espresso
il proprio apprezzamento per la gestione delle varie crisi in Medio
Oriente da parte del presidente Obama, mentre ha garantito di essere
disposto a utilizzare, se eletto, tutto il potenziale della macchina da
guerra americana per difendere gli interessi della classe dirigente del
suo paese.
Com’è
evidente, gli attacchi portati da Sanders contro i miliardari e gli
appelli alla riduzione delle esplosive disuguaglianze sociali che
caratterizzano gli Stati Uniti stridono con il suo sostanziale abbraccio
dell’imperialismo a stelle e strisce, visto che i due aspetti sono
intrinsecamente legati tra di loro.
Il primo dibattito
democratico in vista delle primarie del 2016, caratterizzato da una
discussione vagamente orientata a sinistra, ha comunque messo in chiaro
come la classe politica americana senta le pressioni di una popolazione
che continua in larga misura a pagare le conseguenze della crisi
strutturale del capitalismo esplosa nel 2008.
Anche se ogni
soluzione o iniziativa per invertire la rotta risulta praticamente
impossibile all’interno di un sistema politico dominato da due partiti
espressione delle élite economico-finanziarie americane, la cifra di
questa situazione è emersa soprattutto in una circostanza apparentemente
trascurabile durante il dibattito.
Ciò è accaduto quando il
moderatore della serata, il conduttore della CNN Anderson Cooper, ha
introdotto nella discussione la definizione di “capitalismo” in
relazione agli orientamenti ideologici dei candidati. Pur rimanendo
assenti condanne esplicite del capitalismo come sistema, si è assistito a
una moderata critica di esso, quanto meno per gli standard della
politica ufficiale americana.
A differenza degli anni scorsi,
infatti, i politici interpellati sulla questione si sono astenuti
dall’esprimere un appoggio incondizionato al capitalismo, ritenendo
invece di dover mitigare le loro opinioni o condannandone le
distorsioni. Hillary Clinton, ad esempio, ha avvertito della necessità
di “salvare il capitalismo da se stesso di tanto in tanto” per poi
manifestare ammirazione e sostegno per le piccole e medie imprese.
Sanders,
invece, dopo avere elogiato lo spirito imprenditoriale americano, ha
sorvolato sulle proprie inclinazioni “socialiste”, dichiarandosi
comunque oppositore del “capitalismo da casinò” che si pratica a Wall
Street.
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