Sabato 26 novembre è stato firmato il nuovo contratto nazionale dei
metalmeccanici, storicamente uno dei contratti collettivi più ostici per
il capitalismo italiano. Un accordo che sembra aver soddisfatto tutti i
contraenti: il governo, Confindustria, i sindacati confederali e anche
la Fiom, che dopo diversi anni torna a firmare un accordo nazionale nel
settore metalmeccanico dichiarandosi, per bocca di Landini, molto
soddisfatta. Esultano i sindacati gialli della Cisl e della Uil, ed
esulta Maurizio Sacconi, il proponente principale dell’accordo. “Questo
accordo è un miracolo”, dichiara Marco Bentivogli della Fim-Cisl, a cui
fa eco la Fiom: “un contratto pulito e senza scambi”, secondo Landini.
Confindustria dichiara estasiata: “l’accordo conferma l’idea che il
contratto nazionale diventa un contratto che ha una dimensione
regolatrice che spinge sui contratti aziendali, legandoli molto alla
produttività e spinge verso un modello che è di collaborazione per la
competitività interna alle fabbriche” (qui
una panoramica di dichiarazioni).
Col referendum alle porte era
inevitabile che il governo cedesse piccoli oboli elettorali e non
mettesse in piedi bracci di ferro con il mondo sindacale, soprattutto
con la Fiom. Il problema è che il nuovo contratto spiana la strada alla
contrattazione aziendale, alla “cogestione” sindacale dei profitti
aziendali e allo scambio tra il welfare pubblico in drastica riduzione e
il welfare aziendale che invece vede un’implementazione decisiva. Cosa
c’è di sbagliato in tutto questo? A chiarirlo sono le stesse testate
padronali appagate dell’accordo raggiunto. Sul Corriere Dario
Di Vico si incarica di analizzare i risultati strutturali dell’accordo,
chiarendo sin dalle premesse lo scenario entro cui verrà incardinata la
contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro:
“Al tavolo dei grandi contratti di lavoro dei paesi avanzati,
accanto alle folte delegazioni di imprenditori e sindacalisti siede
ormai fisso un solitario convitato di pietra: la globalizzazione. Se il
risultato di quel tavolo alla fine è troppo sbilanciato a favore del
lavoro c’è il rischio concreto che le imprese non riescano a sostenere
più il ritmo della concorrenza internazionale e vadano fuori mercato.
Viceversa se l’impresa stravince il round del negoziato e magari umilia
il sindacato è facile che psicologicamente gli operai sconfitti si
iscrivano nel novero dei perdenti della globalizzazione e finiscano per
diventare l’esercito elettorale di riserva dei partiti populisti”.
L’editorialista del Corriere certifica il ricatto padronale e
tenta di dargli patente di legittimità: con la “globalizzazione” di
mezzo, o la contrattazione tiene conto delle esigenze padronali di
produrre a orari, ritmi, salari e standard “cinesi”, o quegli stessi
padroni prendono armi e bagagli e trasferiscono la produzione in Cina. E
in effetti, secondo stringente logica liberista, il ragionamento non
farebbe una piega.
Nella truffaldina descrizione degli interessi in
causa manca però la politica, che dovrebbe avere il ruolo di garante
contro ricatti di questo tipo. Infatti il problema non è tanto la
“globalizzazione”, quanto la scomparsa della politica nella
contrattazione sociale, che dovrebbe impedire tali “ricatti
delocalizzanti”. E non perché, come teme Di Vico, poi quegli operai
scontenti inizino a votare il Trump di turno, ma per una ragione di
civiltà talmente palese da risultare retorica: le condizioni di vita del
lavoratore non possono essere una variabile totalmente dipendente dalle possibilità di profitto dei datori di lavoro.
L’entusiasmo sindacale è però decisamente sospetto. Secondo Di Vico,
l’accordo è “un’intesa equilibrata che fa sue le ragioni di aziende che
ormai vivono nell’epoca del 4.0”. Non sappiamo cosa sia quest’epoca 4.0
dove vivrebbero “le aziende”, ma nel mondo 1.0 dove ancora vivono i
lavoratori, un accordo che “fa sue le ragioni delle aziende” è un
pessimo accordo, per nulla equilibrato, e che certifica semmai un
rapporto di forze sociali completamente sbilanciato a favore del
capitale. Non si tratta tanto di pesare i singoli “pro” e “contro” del
nuovo contratto, quanto di valutarne la logica generale che lo
sottintende e la direzione che imprime nelle relazioni produttive del
paese. E in questo senso, l’accordo è una débâcle operaia: “Si comincia
con lo spostare il baricentro della futura contrattazione sul livello
aziendale che rappresenta comunque il punto di contatto più genuino tra
mercato e lavoro”.
E’ questa la razionalità posta alla base
dell’accordo: a livello nazionale si pongono unicamente generici paletti
regolativi, mentre la contrattazione salariale avverrà a livello
aziendale, svuotando di senso la contrattazione collettiva. Inoltre, il
salario viene legato alla produttività, rafforzando il ricatto padronale
per cui il lavoro è una variabile dipendente della produttività.
“Nell’epoca del Grande Convitato di pietra ciò che unisce la comunità
della fabbrica è molto più di ciò che la divide”, conclude
l’editorialista del Corriere.
Ma cosa intende il giornalista
con “comunità della fabbrica”? Il nuovo contratto istruisce il percorso
della condivisione degli interessi aziendali tra datori e sindacati
firmatari, facendo proprio il modello tedesco della “cogestione” del
sindacato agli utili dell’impresa. Il sindacato si trasforma così in
datore di secondo livello, che ha come obiettivo quello della
massimizzazione dei profitti anche a scapito delle garanzie dei
lavoratori, e questo scambio determina un mercato del lavoro a due
livelli. Nel primo, una sempre più ristretta cerchia di vera e propria
aristocrazia operaia ben remunerata e coperta dal welfare aziendale; nel
secondo livello, la sempre più preponderante composizione operaia non
sindacalizzata, senza diritti e sotto pagata, che non ha accesso alle
garanzie contrattuali perché non legata direttamente all’azienda madre
ma subappaltata alle aziende dell’indotto precarizzato. Il nuovo
equilibrio raggiunto si rivela allora un clamoroso passo indietro per le
condizioni generale dei lavoratori del paese, che polarizza i rapporti
tra gli stessi lavoratori e regala alle aziende la possibilità della
contrattazione locale invece di adeguarsi ai vincoli nazionali della
contrattazione collettiva. Una débâcle, spacciata per “accordo pulito e
senza scambi”.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento