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28/11/2016

Visioni Militant(i): The Young Pope, di Paolo Sorrentino

La forma della politica moderna è il prodotto di concetti teologici secolarizzati, secondo Carl Schmitt. Il disincanto del mondo conduce alla scomparsa del sacro e alla sua reintroduzione nella politica, secondo Max Weber. Teologia e disincanto stanno alla base dell’ultima opera di Paolo Sorrentino, The Young Pope, la serie tv appena terminata (l’ultima delle dieci puntate è andata in onda il 18 novembre), prodotta da Sky, Hbo e Canal+. Un’opera dai molteplici significati, svianti, complessi, arditi. Paolo Sorrentino non ha timore a confrontarsi con l’arte, ne possiede gli strumenti e l’irriverenza. E allora con Sorrentino bisogna farci i conti. The Young Pope è un’opera politica, in senso filosofico. Solamente il degrado intellettuale odierno può confinarla al suo superficiale aspetto religioso-clericale, come se parlasse davvero solamente di un Papa folle o degli intrighi vaticani. La trama è nota: un giovane cardinale statunitense viene eletto Papa inaspettatamente, sconvolgendo la placida macchina politica e organizzativa del Vaticano. Il Papa è un reazionario idealista, che si trova a fare i conti con una complessità politica eccezionale che in parte riesce a controllare e in parte ne corrompe apparentemente gli obiettivi finali. Non ricorda niente? Lenny Belardo (questo il nome secolare di Papa Pio XIII) è un convinto idealista, ma al tempo stesso accetta il piano dell’estremo realismo determinato dall’organizzazione del mondo concreto. E’ un Papa che vuole governare, che vuole comandare, non vuole semplicemente regnare. Al Papa non interessa testimoniare una visione del mondo: vuole cambiare il potere, sovvertendo dalle fondamenta l’organizzazione della Chiesa, ribaltandone il significato stesso. Ricorda niente? La visione ideale è la bussola che guida il suo (perfido) machiavellismo, nell’equilibrio per definizione instabile tra idealismo e realismo. E’ la storia della politica che si dipana attraverso la narrazione sorrentiniana, la costante tensione tra idea e potere, astratto e concreto, realtà e immaginazione, essere e dover essere, prosa e poesia.

E’ il significato stesso della politica che prende forma dalle azioni di Pio XIII. Come fare per rimanere fedeli alla propria idea del mondo? Applicandola integralmente. Come si applica integralmente un’idea nel concreto terreno dei rapporti di forza materiali, e non nell’astratta pagina bianca di un libro? Scendendo a patti con la realtà, in vista del bene superiore. E’ Machiavelli. E’ Lenin. E’ l’idea che si fa movimento concreto, che in questo farsi e disfarsi rischia costantemente la corruzione e la devianza, perdendo di vista il bene superiore per amministrare la propria tattica secolare. Ci siamo dimenticati di Dio, dice Pio XIII nella sua prima orazione. Non sono sicuro di credere più in Dio, ripete al suo confessore in Vaticano. Amministrando materialmente un movimento che si sedimenta nelle pieghe del potere, è il bene superiore (il comunismo?) che rischia di smarrirsi. Ma il comunismo(?) non è (solo) uno “stato di cose” da realizzare, ma (anche) un movimento reale che procede all’abbattimento del presente. E’ lotta e anche amministrazione; è rifiuto del potere e anche potere stesso; è rivoluzione e anche istituzionalizzazione della rivoluzione. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è movimento senza organizzazione, non c’è organizzazione senza istituzioni che la performano. Il rischio è quello di cullarsi nelle proprie idee inutili, come è inutile ogni idea che evita il confronto con la realtà. Ma è anche dimenticarsi di Dio, reiterando se stessi nel confortante ruolo di sacerdoti della rivoluzione.

Sorrentino racconta il Papa alle prese col cambiamento della Chiesa. Ma questo principe alle prese con la società cos’è se non noi stessi, noi militanti politici, noi movimento che (prova) ad abbattere una realtà di cui siamo comunque figli, e in cui dobbiamo per forza di cose confrontarsi e batterci? Non è un caso che il Papa sia giovane. A qualcuno potrà sembrare un espediente narrativo secondario, magari – e tutto ciò confermerebbe l’imbarbarimento della ragione post-moderna – una trovata che solletica retoriche populiste renziane sulla rottamazione. E invece il significato della gioventù, intesa come potere in fieri che non ha istituzioni da difendere, burocrazie a cui accodarsi, cleri da cui farsi legittimare, vuol dire cose più profonde, su cui riflettere, e che impongono il recupero del pensiero classico (greco e latino) che ancora oggi illumina sull’uomo e i suoi molteplici destini. La rivoluzione è giovane, come era giovane il potere bolscevico nei suoi memorabili anni, come era giovane la Resistenza, come era giovane la lotta di classe negli anni Settanta. Non solo giovane idealmente. Giovane anagraficamente, non legata a vecchie modalità, a vecchi sistemi di pensiero, vecchi rapporti di (micro)potere. Sono temi purtroppo lasciati cadere o, peggio ancora, lasciati al nemico. Eppure, ancora oggi il rapporto tra rivoluzione e gioventù è capace di dire molto di più della semplice retorica renziana che fagocita, digerisce ed espelle ideologie di potere contro-rivoluzionarie.

L’opera di Sorrentino va allora vista attentamente, soprattutto se si è militanti politici. Non tutto è convincente (la “conversione” finale del Papa cosa dovrebbe rappresentare?), ma quasi niente è buttato là per caso: dialoghi e interpretazioni (alcune fenomenali); scenografie e surrealtà tipiche del linguaggio sorrentiniano, che fa del racconto lento e visionario il tratto caratteristico. Può piacere, può suscitare più dubbi di quanti ne stiamo esprimendo, ma non può lasciare indifferenti. E questo è il primo passo verso l’arte.

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