La forma della politica moderna è il prodotto di concetti teologici
secolarizzati, secondo Carl Schmitt. Il disincanto del mondo conduce
alla scomparsa del sacro e alla sua reintroduzione nella politica,
secondo Max Weber. Teologia e disincanto stanno alla base dell’ultima
opera di Paolo Sorrentino, The Young Pope, la serie tv appena
terminata (l’ultima delle dieci puntate è andata in onda il 18
novembre), prodotta da Sky, Hbo e Canal+. Un’opera dai molteplici
significati, svianti, complessi, arditi. Paolo Sorrentino non ha timore a
confrontarsi con l’arte, ne possiede gli strumenti e l’irriverenza. E
allora con Sorrentino bisogna farci i conti. The Young Pope è
un’opera politica, in senso filosofico. Solamente il degrado
intellettuale odierno può confinarla al suo superficiale aspetto
religioso-clericale, come se parlasse davvero solamente di un Papa folle o degli intrighi vaticani.
La trama è nota: un giovane cardinale statunitense viene eletto Papa
inaspettatamente, sconvolgendo la placida macchina politica e
organizzativa del Vaticano. Il Papa è un reazionario idealista, che si
trova a fare i conti con una complessità politica eccezionale che in
parte riesce a controllare e in parte ne corrompe apparentemente gli obiettivi finali. Non ricorda niente?
Lenny Belardo (questo il nome secolare di Papa Pio XIII) è un convinto
idealista, ma al tempo stesso accetta il piano dell’estremo realismo
determinato dall’organizzazione del mondo concreto. E’ un Papa che vuole
governare, che vuole comandare, non vuole semplicemente regnare. Al
Papa non interessa testimoniare una visione del mondo: vuole cambiare
il potere, sovvertendo dalle fondamenta l’organizzazione della Chiesa,
ribaltandone il significato stesso. Ricorda niente? La visione
ideale è la bussola che guida il suo (perfido) machiavellismo,
nell’equilibrio per definizione instabile tra idealismo e realismo. E’
la storia della politica che si dipana attraverso la narrazione
sorrentiniana, la costante tensione tra idea e potere, astratto e
concreto, realtà e immaginazione, essere e dover essere, prosa e poesia.
E’ il significato stesso della politica che prende forma dalle azioni di Pio XIII. Come fare per rimanere fedeli alla propria idea del mondo? Applicandola integralmente. Come si applica integralmente un’idea
nel concreto terreno dei rapporti di forza materiali, e non
nell’astratta pagina bianca di un libro? Scendendo a patti con la
realtà, in vista del bene superiore. E’ Machiavelli. E’ Lenin. E’ l’idea
che si fa movimento concreto, che in questo farsi e disfarsi rischia
costantemente la corruzione e la devianza, perdendo di vista il bene
superiore per amministrare la propria tattica secolare. Ci siamo dimenticati di Dio, dice Pio XIII nella sua prima orazione. Non sono sicuro di credere più in Dio, ripete
al suo confessore in Vaticano. Amministrando materialmente un movimento
che si sedimenta nelle pieghe del potere, è il bene superiore (il
comunismo?) che rischia di smarrirsi. Ma il comunismo(?) non è (solo)
uno “stato di cose” da realizzare, ma (anche) un movimento reale che
procede all’abbattimento del presente. E’ lotta e anche amministrazione; è rifiuto del potere e anche potere stesso; è rivoluzione e anche istituzionalizzazione
della rivoluzione. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è movimento senza
organizzazione, non c’è organizzazione senza istituzioni che la
performano. Il rischio è quello di cullarsi nelle proprie idee inutili,
come è inutile ogni idea che evita il confronto con la realtà. Ma è anche dimenticarsi di Dio, reiterando se stessi nel confortante ruolo di sacerdoti della rivoluzione.
Sorrentino racconta il Papa alle prese col cambiamento della Chiesa. Ma questo principe alle prese con la società cos’è
se non noi stessi, noi militanti politici, noi movimento che (prova) ad
abbattere una realtà di cui siamo comunque figli, e in cui dobbiamo per
forza di cose confrontarsi e batterci? Non è un caso che il Papa sia giovane. A
qualcuno potrà sembrare un espediente narrativo secondario, magari – e
tutto ciò confermerebbe l’imbarbarimento della ragione post-moderna –
una trovata che solletica retoriche populiste renziane sulla
rottamazione. E invece il significato della gioventù, intesa come potere
in fieri che non ha istituzioni da difendere, burocrazie a cui
accodarsi, cleri da cui farsi legittimare, vuol dire cose più profonde,
su cui riflettere, e che impongono il recupero del pensiero classico
(greco e latino) che ancora oggi illumina sull’uomo e i suoi molteplici
destini. La rivoluzione è giovane, come era giovane il potere bolscevico
nei suoi memorabili anni, come era giovane la Resistenza, come era
giovane la lotta di classe negli anni Settanta. Non solo giovane
idealmente. Giovane anagraficamente, non legata a vecchie modalità, a
vecchi sistemi di pensiero, vecchi rapporti di (micro)potere. Sono temi
purtroppo lasciati cadere o, peggio ancora, lasciati al nemico. Eppure,
ancora oggi il rapporto tra rivoluzione e gioventù è capace di dire
molto di più della semplice retorica renziana che fagocita, digerisce ed
espelle ideologie di potere contro-rivoluzionarie.
L’opera di Sorrentino va allora vista attentamente, soprattutto se
si è militanti politici. Non tutto è convincente (la “conversione”
finale del Papa cosa dovrebbe rappresentare?), ma quasi niente è buttato
là per caso: dialoghi e interpretazioni (alcune fenomenali);
scenografie e surrealtà tipiche del linguaggio sorrentiniano, che fa del
racconto lento e visionario il tratto caratteristico. Può piacere, può
suscitare più dubbi di quanti ne stiamo esprimendo, ma non può lasciare
indifferenti. E questo è il primo passo verso l’arte.
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