Lo scorso 28 ottobre il tribunale del lavoro di Londra ha rigettato lo status di lavoratori autonomi e riconosciuto a due lavoratori lo status giuridico di ‘worker’, ossia parasubordinati.
Lo scorso 28 ottobre il tribunale del lavoro di Londra ha emesso una sentenza che potrebbe avere un significato enorme per decine di migliaia di lavoratori della cosiddetta ‘gig economy’, a seguito dell’azione legale portata avanti dal sindacato GMB a nome di due autisti di Uber – la multinazionale americana che fornisce un servizio di taxi tramite app.
La corte, assegnando ai due lavoratori lo status giuridico di ‘worker’ (simile al lavoro parasubordinato nell’ordinamento italiano), ha infatti accolto le richieste degli avvocati dei lavoratori, che sostenevano che lo status di lavoratori autonomi adottato da Uber nei confronti dei suoi autisti non corrispondesse alla natura del rapporto di lavoro effettivamente vigente. La conseguenza è che gli autisti potrebbero ora avere diritto ad ottenere un risarcimento per il mancato pagamento delle ferie e per aver lavorato venendo pagati al di sotto del ‘national living wage’ (il salario minimo nazionale), fissato a 7.20 sterline all’ora. L’azienda ha già annunciato che farà ricorso e Jo Bertram, manager di Uber nel Regno Unito, ha dichiarato che “decine di migliaia di persone lavorano con Uber esattamente perché vogliono essere lavoratori autonomi e capi di se stessi”.
Il punto chiave della sentenza del tribunale di Londra sembra essere quello del controllo sul processo di lavoro. Fra le motivazioni addotte dalla corte nella sentenza troviamo il fatto che Uber imponga diverse condizioni ai suoi autisti (ad esempio limitando la scelta di veicoli privati che possono essere utilizzati come taxi) e controlli in vari modi la loro performance. Viene chiamato in causa il sistema di rating da parte dei clienti, che Uber utilizza come strumento di valutazione e monitoraggio dei propri lavoratori. Il tribunale segnala anche l’utilizzo da parte di Uber della disconnessione dalla propria app (che equivale al licenziamento, poiché l’autista non ha più modo di accedere al sistema che fa incontrare domanda e offerta) come meccanismo disciplinatorio nei confronti degli autisti che non rispettino la richiesta dell’azienda di accettare o non cancellare viaggi.
Come ha sottolineato uno degli avvocati dei due autisti Uber, questa sentenza avrà potenzialmente effetti dirompenti, non solo per quanti fra i 40.000 driver di Uber decideranno di seguire la strada aperta dai due autisti citando l’azienda in giudizio, ma anche per tutti quei lavoratori della cosiddetta ‘gig economy’ (l’economia dei lavoretti) che sono erroneamente classificati come lavoratori autonomi e che spesso guadagnano meno del salario minimo. Un’inchiesta del Guardian di questa estate aveva rivelato ad esempio che i lavoratori autonomi al servizio del gigante delle consegne Hermes vengono spesso pagati al di sotto del ‘national living wage’. Un articolo del The Independent ha segnalato lo stesso per quanto riguarda gli autisti che consegnano le merci di Amazon, raccontando casi di lavoratori che si trovano costretti ad usare il proprio furgone come bagno pur di non perdere minuti di lavoro preziosi. Sempre il Guardian riporta che sono già quattro le imprese di logistica che sono state citate in giudizio dai propri lavoratori in Inghilterra, chiedendo che venga loro riconosciuto lo status di dipendente, mentre azioni di ‘class action’ collettive portate avanti da autisti di Uber sono in corso anche negli Stati Uniti. E la scorsa settimana i rider londinesi della piattaforma di consegna cibo a domicilio Deliveroo, rappresentati dal sindacato di base IWGB, hanno annunciato di avere iniziato i procedimenti per ottenere riconoscimento sindacale, e di essere pronti ad iniziare una battaglia legale per essere riconosciuti anch’essi come ‘worker’ nel caso la piattaforma non accolga le loro istanze. Questa sentenza potrebbe costituire quindi un precedente significativo per i prossimi processi, e spianare la strada per ulteriori cause da parte di lavoratori impiegati da aziende simili che potrebbero minacciare alla base il modello operativo delle piattaforme on demand.
Sull’onda del caso legale è già in corso un tentativo da parte del Labour Party, all’opposizione nel parlamento britannico, di sancire in legge i diritti del lavoro riconosciuti agli autisti di Uber dal tribunale per l’impiego ed estenderli a tutti i lavoratori della gig economy. Poche ore dopo l’emissione della sentenza, il ministro-ombra laburista per l’economia digitale Louise Haigh ha infatti presentato un emendamento alla ‘Digital Economy Bill’, che sta venendo discussa in queste settimane nel parlamento inglese, per definire come subordinati, piuttosto che autonomi, tutti i lavoratori di aziende che provvedono servizi tramite un ‘intermediario’ digitale. L’emendamento è stato poi temporaneamente ritirato, e verrà ripresentato prima della terza lettura della legge in parlamento, mentre si aspettano i risultati di una commissione d’inchiesta indipendente lanciata dal governo sui diritti dei lavoratori nella gig economy. Il mandato della commissione d’inchiesta è di investigare “l’equilibrio appropriato tra diritti e responsabilità di nuovi modelli di business, e di considerare se la definizione dello status di lavoratore subordinato deve essere aggiornata per riflettere nuove forme lavorative, come ad esempio quelle delle piattaforme on demand”. Ci si possono dunque aspettare nelle prossime settimane ulteriori sviluppi dall’Inghilterra per il dibattito sui diritti dei lavoratori nel ‘nuovo’ mondo del lavoro digitale.
La sentenza della corte di Londra è importante anche per quanto sta succedendo in Italia con i lavoratori della ditta di consegna cibo Foodora. Uno dei motivi della protesta dei fattorini di Foodora riguarda proprio la loro situazione contrattuale: assunti con un contratto di lavoro autonomo, i lavoratori chiedono invece di essere riconosciuti come dipendenti (e come tali accedere ad una serie di diritti come la malattia o le ferie). Benchè la legislazione inglese e quella italiana siano ovviamente diverse è interessante notare come molti dei rilievi del tribunale del lavoro inglese nel caso di Uber si potrebbero applicare anche al tipo di rapporto di lavoro fra Foodora e i suoi fattorini, non ultimo il licenziamento tramite disconnessione di cui sono state vittime due promoter. Speriamo quindi che quanto avvenuto in Gran Bretagna possa avere seguito anche in Italia, ponendo fino all’abuso di forme di lavoro autonomo fittizio che abbondano nel mercato del lavoro italiano.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento