di Francesca La Bella
A volte
per cercare di capire i mutamenti di un’area in continuo movimento come
il Medio Oriente è necessario osservare i Paesi che, apparentemente
periferici, riescono ad assumere un ruolo integrante nelle più vaste
dinamiche geopolitiche. E’ questo il caso dell’Oman. Il
sultanato della Penisola Arabica, dopo l’inizio della guerra in Yemen,
ha, infatti, assunto una posizione di mediazione nella questione e si è
posto come attore con comportamenti difformi rispetto alle scelte dei
Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).
L’allontanamento dell’Oman dalla sfera di influenza saudita ha, però,
un’ampiezza ben più vasta di quella strettamente relativa al conflitto
yemenita e ripercuote i suoi effetti sia in ambito politico sia in
ambito economico.
A riprova di questo
allontanamento, il vertice che si terrà in Bahrain il mese prossimo per
il rafforzamento dei legami tra gli stati che compongono il CCG con la
prevista creazione di una Unione del Golfo non vedrà la presenza delle
autorità dell’Oman. Secondo quanto affermato a tal proposito da Ganem Al
Bu Ainain, Ministro degli affari parlamentari bahrainita, l’Unione del
Golfo sarà molto più avanzata rispetto al Consiglio di cooperazione. In
questo senso, i Paesi che aderiranno all’Unione attraverso
misure politiche ed economiche avranno un livello di integrazione più
avanzato di quelli che si limiteranno a rimanere nel Consiglio di
Cooperazione. La contrarietà al progetto dell’Oman non nasce oggi e già nel 2013 Yusuf
bin Alawi, Ministro degli Esteri omanita, aveva preso posizione contro
l’Unione. La proposta saudita di rafforzamento dei legami tra i Paesi
del Golfo è stata, infatti, a lungo considerata esclusivamente tesa a
marginalizzare l’influenza iraniana sulla sponda occidentale del Golfo
Persico. In quest’ottica, la scelta dell’Oman di non aderire ha
fatto si che alcuni analisti tratteggiassero l’atteggiamento del
sultanato come un tentativo di porsi al di sopra delle parti, ostentando
una totale neutralità: alcuni di essi, al tempo, parlavano in tal senso
dell’Oman come la Svizzera del Golfo.
Ad oggi, però, la situazione sembra essere mutata. L’Oman
ha preso le distanze dall’intervento militare in Yemen guidato
dall’Arabia Saudita e, secondo alcuni rapporti, la dirigenza di stanza a
Muscat si sarebbe parzialmente discostata dalla precedente politica
diplomatica, prendendo parte attiva, anche se non ufficialmente, al
fianco delle milizie Houthi. All’Oman viene, infatti, imputato un ruolo
di tramite tra l’Iran e le milizie ribelli yemenite. La situazione è,
però, delicata. La capacità di porsi come mediatore tra le
diverse forze in campo nel panorama yemenita ha avuto un risvolto
positivo per tutte le parti coinvolte ed una rottura con l’Oman
inciderebbe necessariamente anche sui colloqui di pace yemeniti. A metà novembre, infatti, il Segretario
di Stato americano John Kerry si è recato proprio in Oman per
incontrare il Sultano Qaboos Bin Said per discutere della necessità di
trovare una soluzione politica duratura per lo Yemen e per ringraziare
la diplomazia omanita per la mediazione in campo yemenita che ha portato
nelle scorse settimane al rilascio di cittadini americani detenuti in
Yemen come Wallead Yusuf Pitts Luqman, trasportato a Muscat da ribelli
Sanaa su un aereo militare dell’Oman il 7 novembre.
Da un lato, dunque, i legami tra Muscat e
Teheran vengono considerati fondamentali per mantenere un fragile
equilibrio nel contesto yemenita. Dall’altro, l’atteggiamento
dell’Oman rende palese la debolezza intrinseca della politica
dell’Arabia Saudita che, qualora non riuscisse a stringere a sé le forze
del Golfo, si troverebbe privata del suo ruolo di leader regionale e
ancor più isolata. La particolare dinamica d’area sembra, in
questo senso, riflesso diretto delle linee di tendenza generali che
vedono un rinnovato attivismo e riconoscimento del ruolo iraniano ed un
progressivo arretramento delle forze saudite in tutti i contesti bellici
della regione.
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