Il segno meno della Borsa di Milano e,
ancor più, del titolo Monte Paschi non ci coglie certo alla
sprovvista. Tantomeno la propaganda, prevedibile come una mossa
dell’antico giocatore della Roma Andrade (detto “er moviola” non a
caso), sul “se voti No al referendum falliscono tutte le banche”. Già
il referendum scozzese e quello greco sono stati occasione, da parte di
quelle entità che vengono chiamati “i mercati”, non solo di esprimere
un’opinione ma anche di fare un po’ di soldi. E’ poi toccato alla Brexit e alle elezioni americane. Adesso è il turno del referendum di Renzi.
La democrazia contemporanea è infatti un’occasione di prezzare un po’
di azioni e obbligazioni, da parte degli attori finanziari globali,
durante un periodo di transizione e di indecisione. Ci sarà chi ci
guadagnerà e chi ci perderà, naturalmente, ma tra chi ci guadagna non ci
saranno di certo le popolazioni. Non a caso all’indomani del referendum
sulla Brexit, e degli scossoni di borsa che l’avevano accompagnato,
avevamo scritto “la democrazia è ridotta ad essere un momento della
necessaria creazione di volatilità per la speculazione finanziaria. Un
rapporto tra democrazia e creazione di valore che non va affatto
sottovalutato e che non è episodico ma, invece, fa parte della catena di
creazione di valore dell’industria finanziaria” (Senza Soste, Brexit chi ha paura di un referendum?).
Ma come funziona questa catena di creazione del valore?
Semplice, esattamente al contrario di quello che dicono pubblicamente
gli analisti quando affermano: “il mercato ha bisogno di certezze”. A
queste frasi ci può credere un Pisapia, grande amico di Deutsche Bank
quando era sindaco di Milano, o Grillo quando cerca, da un palco
improvvisato come il suo discorso, di rassicurare gli investitori sul
futuro dell’Italia. Il mercato, per fare soldi, oggi ha bisogno di incertezza.
Ad esempio perché le obbligazioni rendono molto meno che in passato, e
quindi ciò che per i grandi investitori era la certezza, ovvero un
guadagno assicurato sugli interessi legati alle obbligazioni, va a
scemare. Per far soldi, visto che la certezza non rende, il mercato ha
bisogno quindi di incertezza. E i referendum, le elezioni in
generale possono essere una bella situazione di incertezza, in uno
scenario dove le istituzioni, messe proprio a incertezza dall’esito
dalle elezioni, rappresentano comunque un significativo volano di
investimento. La Gran Bretagna, con la maggior piazza
borsistica d’Europa, si spiegava, in questo senso, da sola mentre
l’Italia, terzo-quarto mercato obbligazionario al mondo, si spiega anche
con il suo ruolo negli equilibri complessivi dell’eurozona. A quel
punto in una situazione di incertezza, chi disinveste, o punta contro
qualche titolo, ha un comportamento amplificato nei grandi media
globali. E un giudizio degli analisti che comunque rafforza l’importanza
dell’operazione di disinvestimento, o di scommessa, alla vigilia di una
elezione o di un referendum. I risultati, per chi crea valore sulle
elezioni democratiche, sono grosso modo tre: un grosso guadagno da
posizioni ribassiste, scommettendo contro un titolo o una serie di
titoli; un grosso guadagno acquistando, a tempo debito, assicurazioni
contro il titolo che sta scendendo; un acquisto di titoli a prezzo
scontato, causa crisi, che poi risaliranno dopo la fase di incertezza.
Lo abbiamo detto in termini didascalici per esser chiari: il valore, nella finanza di oggi, si fa più con l’incertezza, con la volatilità.
Se l’incertezza è alta, chi si sa muovere guadagna, grosso modo,
attraverso questi sentieri. Questo anche per rovesciare il luogo comune
che vuole una politica inefficiente e una società pigra alla base delle
crisi finanziarie perché “puniti dai mercati” (una metafora originaria
della società disciplinare che ha poco contatto con la realtà).
Il referendum italiano non
poteva mancare entro questo schema di produzione di valore, che
distrugge beni pubblici e risparmio come altra faccia della medaglia. L’avevamo indicato a settembre in “Ambasciatori americani, agenzie di rating e referendum italiani: la nuova normalità” dove segnalavamo: “Alle borse non interessa tanto il risultato di un
referendum ma saper capire la volatilità dei mercati per estrarre
valore”. Già perché dire, in questa situazione, chi è il candidato delle
borse, quello per il quale le piazze finanziarie festeggeranno il 5
dicembre, è un esercizio ideologico. Lo stesso Renzi, dal Financial
Times che è il principale quotidiano finanziario del mondo, adottato e mollato, per poi essere di nuovo ripreso alla vigilia del referendum.
Queste posizioni giornalistiche
non si spiegano solo sul piano delle differenti firme, e delle
differenti diplomazie che fanno diverso effetto in una redazione,
presenti in un giornale prestigioso. Ma anche sulla necessità, ed è un
ruolo tipico della stampa finanziaria, di dare fiato, o meno, a
posizioni di disinvestimento o di acquisizione di posizioni assicurative
contro il rischio di un paese. Per cui, il Financial Times
si è dedicato a coprire, alternativamente, le posizioni del “Si” e del
“No”. E, come si capisce, è un comportamento che guarda alla produzione
di valore durante un periodo di incertezza non al risultato di un
referendum. Se guardiamo poi a testate come il New York Times, che ha fatto analisi cliniche ma ha anche dato spazio a chi vorrebbe lasciare l’Italia in caso di vittoria del No, o dell’Economist, che si è detto per il No ma oggi è anche espressione della famiglia Agnelli
non certo nemica di Renzi, vediamo come esistano posizioni
differenziate. Proprio perché, specie nel referendum del 4 dicembre,
l’importante è seguire il denaro che si crea nella volatilità di borsa
dovuta all’incertezza, processo di messa a valore della democrazia
deliberativa, piuttosto che prendere davvero parte ad un voto. Poi, con
una seria analisi degli spostamenti di capitale legati al referendum, si
avrebbero un sacco di risposte interessanti. Nel frattempo ecco
l’immancabile Bloomberg che, sull’Italia, fa uscire un articolo sul ribasso dei titoli bancari, e sulla crisi dei bond sovrani
italiani, causa referendum.
Un articolo che spinge chi può
movimentare denaro, dal piccolissimo trader al grande fondo pensioni
aggressivo alla ricerca disperata di redditività, verso tre direzioni:
scommettere contro i titoli bancari italiani, per guadagnare dalla
scommessa, acquistare a basso costo titoli bancari oggi per vederli
salire domani, scommettere su un rialzo dei tassi di interesse dei bond
italiani domani (causa crisi o rialzo tassi federal reserve). Occhi
anche ad un aspetto. Quella che Bloomberg chiama crisi di liquidità
presente sui mercati. Cosa vuol dire? Altro non è che l’incapacità di
poter vendere un’obbligazione per la mancanza di compratori: la causa
principale della crisi di liquidità risiede oggi nei tassi di
remunerazione negativi o pari a zero, in certi casi anche per le
scadenze fino a sette anni, non compensando così nemmeno il tempo in cui
si decide di restare investiti. E se la certezza oggi è questa, ben
venga l’incertezza nei mercati. Permette, a chi si sa muovere, di
predare ricchezza. Prezzando i referendumo o le elezioni. Trasformando
la democrazia in occasione di creazione di valore.
Che dire quindi del titolo del Financial Times sul fallimento di MPS, e di altre sette banche, in caso di vittoria del no?
Semplice, più che sul piano della
notizia siamo su quello dello spettacolo fatto per la creazione di
valore. Quello spettacolo che muove i comportamenti delle borse in modo
da generare volatilità. Perché MPS è appesa ad un filo. Ma il
referendum, nonostante la stessa MPS attenda il voto come un elemento di
chiarificazione politica, con la situazione del monte dei Paschi
c’entra poco. Casomai la banca di Siena deve avere un referente politico certo, comunque vada il referendum.
Ma il punto qui non è solo che un titolo che perde, come ha fatto MPS,
il 99% del valore in dieci anni non può, eventualmente, addossare la
responsabilità del naufragio finale ad una consultazione referendaria.
Sta, guardando all’oggi, piuttosto nel fatto, che il piano di
“salvataggio” di MPS, che prevede un sacrificio economico dei possessori
di obbligazioni e un forte investitore esterno (entrambi non proprio
all’orizzonte), mostra più problemi di quanti ne sembra risolvere.
Speculare in questa situazione prima di una data politicamente incerta,
con ribassi degni del ’29, è un gioco da ragazzi. Tanto più che i giochi
veri si faranno dopo il referendum, calendario crisi MPS alla mano. Se
si guarda alle norme sul bail-in bancario poi, si vedrà come la presenza
di un governo legittimato, aggiungiamo purtroppo, possa essere anche
irrilevante in caso di precipitazione della crisi. Ma intanto si è fatto
un favore a Renzi, a chi specula sui titoli bancari e posta qualche
anticipazione su chi farà la voce grossa quando il gioco MPS si farà
serio.
Altra questione importante che col voto
non ha niente a che vedere ma che mina la situazione delle banche:
diversi analisti sostengono come sia vicina, a livello di autorità
bancarie sovranazionali, una revisione dei modelli interni di
credito delle banche che porterebbe a nuovi buchi di capitale negli
istituti di credito italiani; poi c’è l’imminente adozione del
principio contabile Ifrs 9, che introduce nuovi modelli statistici di
previsione delle perdite su crediti,ed è, anch’essa, sfavorevole alle
banche italiane. E tutto ciò rischia di produrre una ulteriore stretta
creditizia, in un momento in cui le banche sono il settore meno
appetibile per gli investitori globali in genere. Confezioniamo
la questione dentro la scatola referendum, mediatizzando così la crisi
delle banche, e si avranno effetti in borsa. E sono quelli che contano, a prescindere dal risultato. Con chi vince poi, si farà capire chi comanda.
Ecco come l’Italia, Renzi potrebbe
andarne orgoglioso, è entrata nell’uso della democrazia come occasione
di produzione di valore. Un nuovo modo di interpretare la speculazione,
probabilmente. D’altronde stiamo parlando di un fenomeno, la
speculazione, che uno storico broker ha definito “vecchia come le
colline”. Ed è un fenomeno vecchio che, dopo aver investito su ogni
bene, non poteva non toccare la democrazia. D’altronde basta sapere di
cosa stiamo parlando. Jesse Livermore che riuscì ad arricchirsi con il
drammatico crack del 1907, quello che dette vita alla Federal Reserve e
fu tra le cause della prima guerra mondiale, facendo milioni con il
crollo del ’29, aveva una chiara stella polare: “non trasformare mai il
capitale speculativo in capitale di investimento”. Oggi il capitale speculativo si muove entro i flussi di notizie globali.
L’opinionismo renziano fa di tutto per alimentare l’equivoco che si
tratti di capitale di investimento, pronto a scappare dall’Italia se
vince il No. Del resto, dove c’è Renzi c’è un tasso così alto di
alterazione della realtà che, altrimenti, se fosse inquinamento saremmo
tutti morti. Così, a reti unificate, il no viene annunciato come
un qualcosa che sta tra l’invasione delle locuste e il fallimento delle
banche, il crollo della borsa. Fossimo il mago Otelma, una
certa invidia per tutto questo spettacolo la proveremo. Perché, statene
certi, almeno a reti unificate, Renzi dirà di averci indovinato.
Comunque vada.
Redazione, 28 novembre 2016
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