L’università italiana, come del resto il
paese stesso, si trova in una situazione sempre più critica non solo
per il suo presente ma soprattutto per quello che potrà essere il suo
futuro. E’ sufficiente valutare le prospettive di carriera
di un giovane laureato per toccare con mano la profondità del disastro:
solo pochissimi hanno qualche possibilità di continuare l’attività di
ricerca o trovare un’occupazione al livello della loro preparazione. Si
tratta di un’ecatombe generazionale e dell’interruzione di quella catena che assicura il ricambio e dunque la sopravvivenza del sapere. Una petizione,
promossa e firmata dai maggiori scienziati di questo paese, che ha
raccolto in pochi mesi più di 70.000 firme, ha chiesto a grande voce di
riportare il finanziamento della ricerca a un livello accettabile, cioè a
quello antecedente i tagli del duo Tremonti-Gelmini, poi “stabilizzati”
e aggravati dai governi successivi. Questi tagli hanno, di fatto,
eliminato il 20% dei docenti dell’università e, soprattutto, azzerato le speranze di varie generazioni di studiosi:
si tratta di decine di migliaia di ricercatori che, a volte, riescono a
trovare una possibilità all’estero ma che più spesso si devono
contentare di lavori sottopagati e dequalificanti.
Qual è la risposta del Governo? Trovare il capro espiatorio, il nemico, tanto semplice quanto indefinito, nei baroni universitari (e non è una nuova idea!),
e dunque istituire 500 cattedre di “eccellenza” sottratte alla nefasta
influenza dei “baroni” ma sottoposte al controllo del Governo per
“aprire il sistema” e portarvi dentro “l’eccellenza”. Se lo sviluppo
della discussione sulle “cattedre Natta” sta però registrando una rara e inedita convergenza di posizioni a priori lontane contro il provvedimento,
la questione cruciale è che l’iniziativa del Governo non tenta neppure
di affrontare i reali problemi dell’università e della ricerca di questo
paese ma è guidata da una ideologia insensata e sorda a ogni istanza
del mondo reale. Nello stesso tempo la “sperimentazione” governativa
consiste sicuramente in un solo punto chiaro: una pesante intromissione
della politica nella ricerca e nell’università, una ingerenza così
vistosa che bisogna risalire al tempo del fascismo
per trovare un provvedimento che limitasse in maniera analoga
l’autonomia e l’indipendenza della ricerca e dell’università ponendo “il
sapere accademico al servizio della mutevole e contingente volontà
politica dei governi che si succederanno negli anni a venire” come spiega molto chiaramente Umberto Izzo su questo sito.
Infatti, nella proposta di revisione dell’articolo 117 si identifica
una competenza esclusiva della Stato in tema di “istruzione universitaria
e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”.
Il richiamo esplicito alla didattica universitaria permette di
giustificare l’idea che il governo abbia titolo a dettare l’agenda
strategica della ricerca scientifica e tecnologica condotta
dall’Università anche investendo sulla didattica.
Sarà davvero questa la riforma che farà
ripartire l’università? C’è da dubitarne viste le tante riforme fatte
dal governo in questi anni (dal Jobs Act alla Buona Scuola), approvate senza mai incontrare particolari ostacoli istituzionali che non hanno fatto recuperare al paese il suo ritardo
rispetto ai paesi dell’Unione Europea. Anche per il ristagno
dell’economia, ci vuole dunque un altro capro espiatorio su cui
dirottare il dibattito e l’attenzione pubblica: in questo caso la
Costituzione. L’idea è semplice: la “semplificazione costituzionale” dovrebbe infatti accorciare i tempi delle decisioni che favoriscono l’ingresso nel nostro Paese di investimenti e capitali esteri rilanciando finalmente lo sviluppo.
Per inquadrare la riforma è necessario
partire da un punto chiaro: lo stravolgimento della Costituzione nasce
da un parlamento illegittimo, per l’incostituzionalità della legge
elettorale con cui è stato eletto, e da una maggioranza improbabile
costruita a elezioni avvenute. La Costituzione del 1948 fu votata dal
90% del Parlamento sebbene il paese fosse diviso tra partiti con
ideologie e riferimenti contrastanti come i comunisti, i democristiani
insieme con i liberali, e i fascisti. L’averla votata tutti insieme
consentì alla democrazia italiana di superare prove difficili. Nel 2016, non è neppure noto da chi è stata scritta la riforma costituzionale anche se sappiamo essere stata ispirata dalla banca d’affari J.P. Morgan
e portata avanti dal Governo. Ci troviamo dunque di fronte ad uno
scenario sudamericano: mentre la Costituzione servirebbe a controllare
il Governo la modifica della Costituzione è stata proposta dal Governo
stesso.
La classe dirigente e i governi che si
sono succeduti negli ultimi dieci anni almeno hanno dovuto trovare un
capro espiatorio dei loro fallimenti e l’Università, la ricerca e il
sistema educativo in generale hanno avuto proprio questo ruolo. Tuttavia c’è anche una convergenza d’interessi molto nitida e pericolosa.
Da una parte, gli interessi di chi vede nell’Università e nella ricerca
un modo per formare quadri aziendali gratis e avere un ufficio studi a
costo zero. Dall’altra, quelli di chi vede nell’istruzione di qualsiasi
grado praterie per fare affari. Infine, ed è questo il profilo forse più
inquietante, c’è anche chi vuole silenziare il pensiero critico e
libero. Mettendo sotto osservazione i settori più sensibili da un punto
di vista politico – come economia, diritto costituzionale o del lavoro, o
anche sociologia – si assiste al dispiegarsi di sottili ma efficaci
manovre ideologiche che mirano all’annientamento (accademico) di chi la
pensa in modo diverso. L’affermazione del pensiero unico nelle accademie
fa sì che quando il politico o il legislatore avrà bisogno di
determinate competenze, potrà trovarle solo se allineate al paradigma di
riferimento. Non è un caso se le politiche economiche degli ultimi
dieci anni (almeno) abbiano una marcata impronta neo-liberista e se i
principali economisti cooptati o ascoltati dalla politica siano stati
reclutati dall’università Bocconi.
Il problema vero è che dopo 4 dicembre avremo di fronte gli stessi problemi che affliggono il paese da molti anni:
il debito pubblico e la disoccupazione crescenti, la perdita di
competitività, una forza lavoro sempre meno qualificata e a costo sempre
più basso, la dismissione del sistema industriale, la mancanza
d’innovazione, la mortificazione dell’università e della ricerca, un
sistema bancario sempre più in bilico, la rottamazione delle nuove
generazioni, tenute attentamente ai margini del dibattito pubblico, ecc..
Il tutto con una legge elettorale che distorce il risultato del voto,
dando vantaggi grandissimi a chi ha avuto solo marginalmente più voti e
con una Costituzione più lasca che cede il campo alla “mutevole e contingente volontà politica dei governi”:
una situazione foriera di pericolose instabilità visto che dovrebbe
essere proprio la Costituzione a limitare la concentrazione del potere. La ricerca del capro espiatorio come asse portante della politica del governo non può che generare disastri.
Analisi condivisibile, tuttavia se "la ricerca del capro espiatorio come asse portante della politica del governo non può che generare disastri", l'incapacità d'identificare l'origine materiale di determinate operazioni non sarà certamente foriera di successi strategici.
Le riforme di questi anni, infatti, non sono mai state finalizzate a far recuperare all'Italia il proprio ritardo nei confronti degli altri Paesi dell'Unione - ammesso che abbia senso valutare con una sola scala sistemi sociali, politici ed economici tanto diversi come quelli in oggetto.
Semmai, hanno avuto l'obiettivo specifico e dichiarato di rendere l'Italia strutturalmente in ritardo rispetto al nocciolo duro dell'UE, in quanto nella divisione comunitaria dello sviluppo e quindi delle filiere produttive e del lavoro, al Bel Paese è stata relegato il ruolo di villaggio vacanze e bacino di mano d'opera e produzioni a basso valore aggiunto.
Nessun commento:
Posta un commento