1. I Democratici hanno perso le elezioni. I Repubblicani non le hanno vinte. L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti è di fatto l’affermazione di un “terzo partito” in grado di “scalare” i Repubblicani. E’ uno scenario inedito che scatena i timori dei circoli tradizionali della classe dominante. E’ un fatto storico, a suo modo. Ne va capita la portata, senza cadere negli isterismi dei media ufficiali. Non siamo di fronte a un cambio qualitativo di regime, Trump rimane il Governo del grande capitale, per il grande capitale. Pur presentandosi come opposto alle élite dominanti, egli è élite. La sua squadra di Governo lo dimostra: un misto di consulenti di Jp Morgan, di finanzieri responsabili del crack di Lehman Brothers e di esponenti della destra Repubblicana.
2. Questo risultato tuttavia non sancisce la crisi di questa o quella corrente politica. E’ la conferma fragorosa della crisi della “democrazia borghese” così come l’abbiamo conosciuta. E’ una crisi che fa tanto rumore, ma è solo l’ultimo sintomo di una crisi sistemica più profonda. Fa rumore perché annuncia che la peste è arrivata perfino lì: nel reparto isolato, a tenuta stagna e sterilizzato del sistema elettorale americano.
3. L’intero establishment Usa si è schierato con la Clinton. Ha perso. E’ questo ciò che lascia sbigottite le élite politiche “tradizionali”. Hanno perso il controllo del proprio mare, proprio nel porto più sicuro. La loro paura non risiede tanto in quello che farà Trump, ma nel perché è arrivato fin lì. Là fuori, fuori dal loro mondo, una massa senza nome, grigia e informe, li odia. Non si tratta di invidia. Né dell’odio istintivo e abituale della “plebe” contro i potenti. E’ qualcosa di più profondo. E’ qualcosa che si fa pretesa di cambiamento e che si impossessa degli strumenti che trova sulla sua strada.
4. Ha perso la logica del meno peggio. Ha perso l’idea che bere acqua salata possa alleviare la sete. I rappresentanti politici di una società cinica, violenta, in guerra permanente, sessista, razzista non avevano alcuna credibilità ad agitare questi temi contro Trump. Ha vinto l’originale, non la fotocopia. Il miliardario maschilista, spaccone, che sembra uscito da un pessimo film di John Wayne: che cosa è in definitiva, se non questo, il sogno americano? Chi poteva rappresentare meglio gli Usa del Patrioct Act e della guerra al terrorismo?
5. Se il “terzo partito” di Trump ha vinto è perché ha potuto presentarsi come movimento contro “le élite”. E l’ha potuto fare perché un “terzo partito” non è sorto a sinistra. Solo così Trump è riuscito a occupare entrambi i terreni: quello della difesa dell’esistente e del presunto cambiamento.
6. La sua estetica “antisistema” è però solo la copertura di un nocciolo di profonda conservazione. Attecchisce su un terreno attraversato da crescenti proteste e lotta di classe, come un fungo nel sottobosco.
Ma il movimento di Trump non è la protesta. Esso ammicca alla protesta. Non è un voto operaio. Esso fa incursioni nel voto operaio. Il suo nucleo interno è costituito dal conservatorismo del Tea Party, dal nazionalismo delle correnti più fanatiche dei neo-conservatori, dall’integralismo religioso della provincia rurale americana, dal sogno protezionista di pezzi dell’apparato economico. Si tratta di una corrente conservatrice considerata fino a poco tempo fa appena grottesca e che oggi si afferma come maggioranza. Lo fa intercettando un processo di distacco del ceto medio rovinato dal proprio stesso sistema politico.
7. Il grande capitale non controlla “la politica” solo con le menzogne dei media o con il finanziamento diretto di questo o quel partito. La trasmissione della sua ideologia alla società è un meccanismo ben più articolato e profondo. Avviene attraverso la religione e i suoi apparati, attraverso le abitudini e le tradizioni, il nazionalismo e i suoi riti. La catena di trasmissione delle idee dai circoli dominanti al resto della società è garantita da un pulviscolo atmosferico di figure intermedie: il notabile, l’avvocato, il professorone, l’intellettuale, il piccolo proprietario. Di fronte a una crisi economica che divarica le disuguaglianze in maniera tanto rapida e clamorosa, questa catena di trasmissione si rompe. La fascia intermedia è inghiottita, spinta verso condizioni a volte perfino peggiori del proletariato più classico.
8. Trump intercetta questo scontento, lo fa per riportarlo all’ovile. Promette cambiamento, ma la sua funzione è esattamente quella della restaurazione. Restaurare la fiducia di questo blocco sociale nel sistema. Tuttavia nessuna delle sue promesse si basa su prospettive reali. Il suo programma non può essere attuato e, se lo sarà, genererà nuova instabilità.
9. L’idea di una politica isolazionista, protezionista o addirittura non interventista nel cuore della principale potenza capitalista mondiale è semplicemente ridicola. L’imperialismo non è una scelta politica del capitale. E’ la sua stessa sostanza. Una potenza capitalista non può abdicare al proprio ruolo imperialista. L’isolazionismo Usa non significa maggiore cura degli interessi statunitensi negli Usa. Significa semmai maggiore cura degli interessi Usa nel mondo. In un contesto di crescenti tensioni geopolitiche, non c’è investimento economico sicuro se non puoi difenderlo militarmente. Non c’è vittoria commerciale se non puoi consolidarla con la supremazia militare. L’isolazionismo di Trump in poche parole non può darsi senza espansionismo militare. Ma Trump stesso giunge come conseguenza della crisi di strategia del militarismo a stelle e strisce. Da tempo lo zio Sam non riesce a imporre il proprio ordine, né ritirandosi né avanzando: Trump non può cambiare questo fatto. Non può fermare la guerra né in Siria, né altrove, e non può vincerla. Non può ritirarsi dal caos mondiale e non può stabilizzarlo. Le truppe continueranno a uscire dai confini patrii. I feriti e le bare continueranno a tornarvi, con buona pace di Clint Eastwood e del suo American Sniper.
10. “The american working class will strike back”: così si è espresso Trump nel suo discorso di insediamento. Questo è il profilo che ha tenuto per tutta la campagna elettorale: un misto di nazionalismo e di demagogici riferimenti “di classe”, dove “rivincita del lavoratore” è spesso usata come sinonimo di “rivincita del made in Usa”. Un discorso mirato scientificamente a sedurre le zone operaie degli Stati in bilico. Una demagogia che tuttavia non può avere seguito. Il flirt tra alcuni settori operai, per altro non maggioritari, e il miliardario non può trasformarsi in nessuna relazione seria. Non solo perché divisi da interessi di classe opposti, ma anche perché non c’è nessuna base materiale su cui si possa cementificare un patto tra “produttori” a difesa del made in Usa.
11. Trump promette di difendere le produzioni americane, alzando dazi doganali contro le merci cinesi, tassando chi porta le produzioni all’estero, favorendo una reindustrializzazione del paese. In parte non si tratta di niente di nuovo. E in parte si tratta di qualcosa di non totalmente applicabile. Da tempo commentiamo la crescente tensione negli scambi commerciali internazionali o il parziale ritorno “a casa” delle “produzioni”. Le correnti politiche nazionaliste sorgono sulla base di questo processo economico. Il quale però non determina un ritorno al passato. Determina solo ulteriori convulsioni e contraddizioni nel sistema. L’internazionalizzazione dei mercati, la compenetrazione tra produzioni, la presenza di gigantesche multinazionali non sono attributi del capitalismo. Sono il capitalismo stesso. Dove comincia il made in Cina venduto negli Usa e il made in Usa prodotto in Cina? Dove comincia il bisogno di un’azienda americana di comprare l’acciaio cinese a basso costo e quello dell’acciaieria americana di venderlo a costi maggiori?
12. Tutto questo è avvenuto perché “i Democratici hanno abbandonato i lavoratori americani”? Esprimersi così è improprio. I Democratici non hanno mai curato gli interessi dei lavoratori americani. Il proletariato americano per una serie di ragioni storiche non è mai riuscito a sviluppare un proprio riferimento politico organizzato. La classe dominante americana ha potuto basarsi non solo sul profitto estratto dalla propria classe operaia, ma anche dal superprofitto derivante dalla propria posizione di superpotenza mondiale. Questo ha permesso l’irrigimentazione del proletariato americano e la riduzione dei sindacati a una lobby tra le tante presenti all’interno dei Democratici.
13. L’unica vera opposizione esistente a Trump è la stessa che non aveva nulla da guadagnare dalla vittoria della Clinton. Sono gli Usa di Occupy, di Black Lives Matter, degli scioperi nei McDonald per un salario di 15 dollari orari. Sono gli Usa che si sono appena affacciati alla campagna elettorale di Sanders per verificare se era reale l’intenzione di fare una “rivoluzione contro i miliardari”. Ma non era quello l’uomo e non era quella la via. C’era solo un modo, uno e uno soltanto, perché la candidatura di Sanders, il suo parlare di socialismo e rivoluzione all’interno delle primarie Democratiche, non risultasse infine un’avventura grottesca: usare quella campagna come leva per la rottura dei due poli e una candidatura indipendente. Sanders da buon riformista ha scelto un’altra via: capitolare, abdicare, subire brogli e manovre. Ironia della sorte: ha giustificato il tutto con la necessità di sconfiggere Trump.
14. Non sappiamo con certezza se Sanders avrebbe sconfitto elettoralmente Trump. Sappiamo che una rottura dei Democratici da sinistra avrebbe fornito oggi all’opposizione sociale a Trump un punto di riferimento politico organizzato. Perché è questo il tema, negli Usa come in Italia. Non il movimento per il movimento, non la lotta per la lotta e nemmeno il semplice riconoscimento dello scontro di classe di per sé. E’ il prevalere all’interno della lotta, all’interno della classe, all’interno del movimento, della consapevolezza della necessità dell’organizzazione politica. Della sua strutturazione attorno a idee rivoluzionarie e scientifiche, modernamente coniugate con le necessità dello scontro in atto. Il personale che formerà le fila di questa organizzazione è in marcia. Va in questa direzione a sua insaputa. Si trova tra qualche lavoratore che magari ha votato Trump per rabbia. Si trova nelle proteste studentesche scoppiate immediatamente negli Usa e che preannunciano scontri sociali ben più ampi. Si trova magari nel movimento per i diritti civili delle persone di colore. E’ ancora avvolto inevitabilmente da ogni genere di illusione “Democrats”. Ma lì si trova ed è lì che va cercato.
15. Trump ha vinto. E perderà. Perderà perché la sua farsa si rivelerà tale. Perderà perché l’unica parte del suo programma a essere applicato saranno tagli, sacrifici, attacchi ai diritti. Perderà perché quegli stessi processi che l’hanno portato lì genereranno la marea che lo riporterà giù. Trump perderà, se noi lo sconfiggeremo.
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