di Michele Paris
L’appello all’unità della nazione lanciato in occasione del giorno
del Ringraziamento da Donald Trump è solo il più recente sforzo del
presidente eletto degli Stati Uniti di superare le divisioni e i toni
più estremi da lui tenuti nel corso della campagna elettorale. Questo è
per lo meno ciò che viene spiegato dalla stampa ufficiale americana,
assecondata da un Partito Democratico che ha dimenticato in fretta le
feroci critiche rivolte al miliardario newyorchese prima del voto, così
come gli avvertimenti circa la catastrofe che avrebbe investito il paese
in caso di un suo insediamento alla Casa Bianca.
Da ormai due
settimane, tra gli oppositori di Trump lo shock del suo successo ha
lasciato il posto per lo più a promesse di collaborazione, sforzi per
garantire una transizione senza scosse, come ha affermato di voler fare
Obama, e al massimo impegni ad attendere le prime iniziative del
neo-presidente prima di esprimere un giudizio nei suoi confronti.
Questo
atteggiamento accomodante contrasta con il profilo dei membri che Trump
ha già scelto per occupare alcune posizioni all’interno della sua
nascente amministrazione e con quello di molti altri che sono in fase di
valutazione e che potrebbero ricevere un qualche incarico a breve.
Alla
settimana scorsa risalgono le nomine a ministro della Giustizia
(“Attorney General”) del senatore dell’Alabama, Jeff Sessions, a
direttore della CIA del deputato del Kansas, Mike Pompeo, e a
consigliere per la sicurezza nazionale del generale in pensione, Michael
Flynn. Tutti e tre sono attestati su posizioni di estrema destra e,
visti i ruoli che andranno a ricoprire nel prossimo futuro, lasciano
intravedere un’involuzione reazionaria nell’ambito della politica
estera, della sicurezza nazionale e dei diritti democratici sul fronte
domestico.
Sessions è uno dei senatori considerati più a destra
della camera alta del Congresso di Washington ed è stato il primo tra i
suoi colleghi Repubblicani a sostenere Trump in campagna elettorale. Più
volte autore di commenti apertamente razzisti durante la sua carriera
giuridica e politica, nel 1986 Sessions era stato proprio per questa
ragione uno dei pochissimi nominati alla carica di giudice federale
nella storia degli Stati Uniti a essere bocciato dalla commissione
Giustizia del Senato, oltretutto a maggioranza Repubblicana.
Pompeo,
da parte sua, ha sempre manifestato la propria approvazione sia per i
metodi di tortura utilizzati dall’agenzia che andrà a dirigere negli
interrogatori di presunti terroristi dopo l’11 settembre, sia per la
sorveglianza indiscriminata delle comunicazioni elettroniche dei
cittadini condotta dalla NSA. Flynn, infine, è un fanatico
anti-islamico, rimosso nel 2014 da Obama dall’incarico di direttore dei
servizi segreti militari per l’imbarazzo e il caos provocati dalle sue
convinzioni.
La scelta di questi individui aveva fatto seguito
all’ingresso alla Casa Bianca come “stratega” presidenziale di Stephen
Bannon, ex direttore del sito web di ultra-destra, Breitbart News, e con legami ben documentati con gli ambienti fascisti del suprematismo bianco.
Le
nomine più recenti di Trump sono state accolte invece dalla gran parte
dei media d’oltreoceano come un tentativo di diversificare gli
orientamenti ideologici della sua amministrazione oppure di offrire
posizioni di rilievo a donne, dopo che in campagna elettorale si era
alienato molte americane a causa delle varie denunce di molestie
sessuali che erano emerse.
In
realtà, finora i prescelti di entrambi i sessi da Trump continuano ad
avere sostanzialmente in comune posizioni di destra, se non di estrema
destra. La prossima ambasciatrice USA alle Nazioni Unite sarà ad esempio
la governatrice della South Carolina di origine indiana, Nikki Haley,
la quale, oltre a non avere nessuna esperienza nell’ambito degli affari
internazionali, è una convinta anti-abortista e nel suo attuale incarico
ha promosso politiche fiscali ed economiche improntate all’austerity
più estrema e al taglio dei servizi pubblici.
Ancora più
preoccupante è stata poi la nomina a ministro dell’Educazione di Betsy
DeVos, miliardaria ed ex numero uno del Partito Repubblicano in Michigan
che ha dedicato la propria vita alla distruzione della scuola pubblica
nel suo stato. Anche la stampa americana “mainstream” in questi giorni
ha insistito sulle sue attività volte alla promozione delle cosiddette
“charter schools”, ovvero scuole private a fini di lucro sovvenzionate
con denaro pubblico, e al contenimento dell’attività sindacale degli
insegnanti nel settore pubblico.
Betsy DeVos, sorella di Erik
Prince, fondatore di Blackwater, la famigerata compagnia che offriva
servizi di sicurezza al governo americano in teatri di guerra,
nonostante come Nikki Haley abbia talvolta espresso giudizi critici nei
confronti di Trump nei mesi scorsi, minaccia di mettere in atto le idee
di quest’ultimo in ambito scolastico, fondate sul trasferimento di fondi
pubblici agli istituti privati, tramite ad esempio l’erogazione di
“voucher” agli studenti che scelgono di frequentarli.
Già nelle
prossime ore potrebbero arrivare altre nomine per ricoprire importanti
incarichi nell’amministrazione Trump e le prospettive non appaiono
migliori. Per il dipartimento della Difesa, il neo-presidente sta
valutando, tra gli altri, l’ex generale dei Marines, James Mattis.
Alto
ufficiale con incarichi di comando in Iraq e in Afghanistan, Mattis ha
mostrato più volte la propria predisposizione al fanatismo ed è
associato a numerosi massacri di civili, come le battaglie di Fallujah
nel 2004 e, nello stesso anno, il bombardamento su una festa di nozze
nella località irachena di Mukaradeeb che fece più di 40 vittime, tra
cui 13 bambini.
Più in generale, Trump si è consultato in queste
due settimane con svariati ex generali, offrendo probabilmente ad alcuni
di loro incarichi governativi. Ciò conferma, al di là di quelle che
saranno le scelte definitive, come la nuova amministrazione intenda
orientare le proprie iniziative verso un marcato militarismo, con buona
pace di quanti si attendono una de-escalation dell’impegno americano
all’estero.
Nonostante la prevedibile piega che sta prendendo il
processo di transizione di Trump verso la Casa Bianca, come già
anticipato, molti esponenti Democratici hanno manifestato aperture nei
suoi confronti, soprattutto in merito al piano di costruzione di
infrastrutture per centinaia di miliardi di dollari che era al centro
della sua campagna elettorale.
Anche se molti “liberal”
sostengono di avere trovato un importante punto in comune con il
populismo trumpiano, il suo non è un progetto di lavori pubblici che
ricordi il New Deal di Roosevelt, ma prevede piuttosto massicce
sovvenzioni a imprese private che saranno le principali beneficiarie
delle opere che verranno eventualmente realizzate.
Il Partito
Democratico sostiene inoltre di poter trovare un’intesa con la nuova
amministrazione Repubblicana sulle misure di “nazionalismo economico”
propagandate da Trump. La “sinistra” Democratica e i sindacati sono ad
esempio sulla stessa lunghezza d’onda del presidente eletto per quanto
riguarda la lotta ai trattati di libero scambio, accusati di avere
causato l’emorragia di posti di lavoro dagli Stati Uniti negli ultimi
decenni. Poca attenzione viene però prestata al pericolo di scatenare
una guerra di dazi con gli altri paesi, conseguenza inevitabile del
protezionismo propagandato da Trump.
Oltre alla necessità di
serrare i ranghi nella classe dirigente americana per far fronte alle
tensioni sociali che attraversano il paese, è anche l’illusione di poter
lavorare con Trump in questi e altri ambiti ad aver probabilmente
convinto i leader Democratici ad astenersi, se non in rare occasioni,
dal fare riferimento al margine di vantaggio di Hillary Clinton nel voto
popolare. Cosa che avrebbe potuto mettere in dubbio la legittimità
dell’agenda reazionaria che si prospetta a partire da gennaio.
Malgrado
abbia perso il voto dei “collegi elettorali”, su cui si basano le
presidenziali negli Stati Uniti, l’ex segretario di Stato di Obama ha
raggiunto un margine di due milioni di voti su Trump quando mancano
ancora centinaia di migliaia di schede da scrutinare in stati come la
California. Questo risultato è senza precedenti nella storia americana,
visto che, tra la manciata di elezioni nelle quali il candidato vincente
ha perso il voto popolare, il margine più grande era stato registrato
nel 2000, quando Al Gore ottenne circa 540 mila consensi in più di
George W. Bush.
L’atteggiamento di deferenza nei confronti di
Trump, a fronte della deriva a destra che fa prevedere la selezione dei
membri della sua amministrazione, è apparso particolarmente evidente nei
giorni scorsi da due episodi che hanno coinvolto i media americani.
Trump si è recato martedì presso la sede del New York Times,
cioè il giornale che aveva condotto la battaglia più dura contro la sua
candidatura durante la campagna elettorale, giungendo spesso a
distorcere i fatti riportati per favorire Hillary Clinton. L’incontro
tra il presidente eletto e l’editore e alcuni reporter del giornale
newyorchese è stato fin troppo cordiale e non ha toccato le questioni
più scottanti relative a Trump, in linea con il proposito fatto
recentemente ai lettori di seguire in futuro le vicende politiche in
maniera più “equilibrata”.
In
precedenza, lo stesso Trump aveva invece convocato nella sua residenza
di New York dirigenti e principali “anchormen” dei più importanti
network privati nazionali di notizie (ABC, CBS, CNN, FoxNews, MSNBC e NBC),
verosimilmente per lamentarsi delle critiche rivolte da molti di loro
nei suoi confronti e forse per dare indicazioni sulla copertura
giornalistica della nuova amministrazione.
L’evento è decisamente
senza precedenti in una democrazia e sembra essere stato caratterizzato
da furiose invettive da parte di Trump contro i presenti. Frammenti
della discussione sono filtrati solo in forma anonima per essere
riportati da alcuni giornali, mentre nessuno dei partecipanti
all’incontro si è fatto alcuno scrupolo per l’accaduto, decidendo di
rispettare il vincolo di segretezza invece di denunciare gli attacchi
del neo-presidente contro quella che dovrebbe essere ancora a tutti gli
effetti una stampa libera e indipendente.
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