di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il corridoio di terre
nel nord della Siria spiegano molto dell’attualità del conflitto e degli
equilibri di potere. I quattro angoli che ne definiscono il perimetro
sono Azaz e al-Bab a ovest e Jarabulus e Manbij ad est. Aleppo è
vicinissima, 40 km. Lì si gioca il destino della guerra ed è inevitabile
che ciò detti la strategia della Turchia e dell’invasione camuffata da
operazione anti-Isis.
A tre mesi dall’inizio di “Scudo dell’Eufrate”, Ankara non
combatte l’Isis ma mangia terreno al progetto kurdo di unificazione dei
cantoni. Ma ora sta anche violando gli ufficiosi patti con Mosca e
Damasco, che avevano permesso l’ingresso nel paese con un
silenzio-assenso purché la Turchia non mettesse gli occhi su Aleppo.
Così non è: l’operazione prosegue a rilento ma con precisione
chirurgica. Dopo Jarabulus e al-Rai le truppe turche e i “ribelli”
siriani al soldo di Ankara hanno puntato su al-Bab e
contemporaneamente continuano a sostenere le opposizioni impegnate
dentro la capitale del nord. La mossa, prendere al-Bab sia per
indebolire i kurdi sia per rafforzare la propria influenza sui “ribelli”
siriani (in particolare l’Esercito Libero e i salafiti in Ahrar
al-Sham), ha già provocato la reazione di Damasco che – dicono fonti
locali – avrebbe colpito con un raid l’esercito turco, uccidendo tre soldati.
A frenarlo a due passi da al-Bab, dove ieri ha ripreso i raid aerei,
sarebbe stata proprio Mosca. La Russia non intende vedere le forze
turche fare da scudo alle milizie ribelli ad Aleppo, le stesse che
portano avanti continue controffensive sui quartieri ovest controllati
dal governo e che – è la denuncia delle organizzazioni internazionali –
stanno impedendo ai civili intrappolati ad est di mettersi in salvo. Non
è un caso che gruppi armati evacuati da Daraya, a Damasco, si stiano
unendo in massa all’operazione turca.
Lapalissiano obiettivo resta Aleppo, condannata ad una
sofferenza senza precedenti. Gli ultimi giorni hanno visto un’ulteriore
escalation del conflitto, con entrambe le parti impegnate a commettere
crimini contro i civili, malnutriti, assediati dalle opposizioni e privi
di ospedali funzionati, tutti caduti sotto le bombe del governo.
Giovedì un nuovo piano Onu per la consegna degli aiuti sarebbe stato
accettato dai “ribelli” (ma non dal gruppo leader, l’ex al-Nusra), non
ancora da Russia e Damasco. Nel limbo resta la popolazione, con
l’inverno alle porte e il cibo scomparso dai quartieri est.
La tensione è alta e la Turchia tira la corda sia russa che statunitense. Le
pressioni su Washington e la minaccia ribadita nei giorni scorsi dal
presidente Erdogan («Marceremo su Manbij», la città liberata a metà
agosto dalle Forze Democratiche Siriane, Sdf) hanno provocato un
rallentamento della controffensiva su Raqqa, lanciata all’inizio mese
dalle Sdf, mettendo in chiara difficoltà gli Stati Uniti e la loro
frammentaria strategia nella regione. Le forze kurde
ufficialmente sostenute dagli Usa nella lotta all’Isis vengono
costantemente prese di mira, militarmente e politicamente: martedì sono
stati spiccati 48 mandati di arresto per membri delle Ypg, tra cui il
leader del Partito di Unione Democratica, il loro braccio politico,
Saleh Muslim.
E mentre infiamma la Siria, in casa la Turchia stringe la morsa sulle
opposizioni, politiche e mediatiche. A monte, di nuovo, l’obiettivo di
distruggere le aspirazioni kurde e rafforzare l’uomo solo al comando. A
20 giorni dall’arresto di 12 deputati del Partito Democratico dei Popoli
(Hdp), compresi i due copresidenti Demirtas e Yüksekdağ, un velo è
calato sulle detenzioni. Eppure i rappresentanti del 13% dell’elettorato
turco restano in isolamento con l’accusa di sostegno al terrorismo di
cui le eventuali prove non sono state pubblicamente presentate.
Ieri Demirtas è apparso per la prima volta di fronte ad un
tribunale, dopo aver rifiutato di prendere parte alla prima udienza
della settimana scorsa. In tribunale il leader dell’Hdp ha definito
illegale il processo perché l’immunità parlamentare è stata forzatamente
cancellata e perché i suoi avvocati sono stati arrestati o privati del
diritto di incontrarlo: «La corte non può prendere alcuna
misura contro di me anche se mi rifiuto di testimoniare o presentarmi in
aula. Nessun potere ha il diritto di controllarne un altro. L’autorità
giudiziaria non può privare un membro del parlamento dell’immunità
facendo le leggi».
C’è anche chi chiede di essere rinviato a giudizio per uscire dalle
celle in cui è stato confinato senza accuse formali: sono i giornalisti
del quotidiano di opposizione Cumhuriyet che, arrestati il 31
ottobre e privati degli effetti personali, di carta, penna e libri,
domandano l’incriminazione così da poter aspettare il processo a piede
libero.
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