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21/11/2016

Trump e la Cina

Uno dei nodi più difficili da sciogliere per Trump è il “dossier Cina”. In primo luogo c’è il capitolo delle relazioni dirette che contempla il problema delle relazioni commerciali: Trump ha promesso il ritorno dell’auto a Detroit e, più in generale, della manifattura in Usa. Si può capire che questo è uno dei capisaldi della sua idea di America, solo che non si vede come sia possibile farlo senza porre un limite alla concorrenza cinese e qui la soluzione a breve è una sola: dazi protezionistici.
Soluzione ovviamente sgradita ai cinesi che scatenerebbero una guerra commerciale. Volendo costringere i cinesi a rivalutare lo yuan, ci provò Obama nel 2009, ma gli andò male (i cinesi risposero subito per le rime, rialzando i loro dazi sui prodotti americani e la guerra finì subito perché Obama capì l’antifona. Il fatto è che i cinesi, da questi punto di vista hanno nelle mani l’arma assoluta, essendo i massimi creditori degli Usa: 1.200 miliardi di dollari su un totale di circa 19.000 miliardi  quindi quasi il 13% (dati Sole 24 ore 25 maggio 2016) e nel 2009 la quota era decisamente maggiore, circa il 20% se la memoria non mi inganna.

Per quanto i cinesi abbiano rallentato l’acquisto di bond Usa, e la situazione sia migliorata, da questo punto di vista, una guerra commerciale con la Cina non è la mossa più consigliabile per Trump, soprattutto in vista della stretta che vorrebbe imporre alla Fed. Se i cinesi rifiutassero di acquistare bond  man mano che essi vengono a scadenza, la situazione finanziaria degli Usa si farebbe grigia, visto che hanno un debito che ha già saturato il mercato ed è facile prevedere che il tetto sarà nuovamente sfondato, per cui ricollocare una quota aggiuntiva non sarebbe semplicissimo, a meno di interessi decisamente più alti. E le banche americane non sono nel momento più brillante (anche se quelle europee stanno messe peggio). Dunque, potrebbe essere una mossa con effetti molto pesanti.

Poi c’è l’aspetto delle relazioni indirette: una guerra economica fra Usa e Cina rialzerebbe di molto il potere contrattuale dei russi da un lato e di Giappone, Vietnam e India dall’altro. Infatti, nei confronti della Russia ancora non capiamo cosa voglia fare Trump e (quasi tramontata la candidatura di Flynn) si capisce poco di cosa voglia fare Giuliani.

Comunque, sarebbe un dialogo con gli Usa in posizione svantaggiosa, nel caso di scontro con la Cina. Per quanto riguarda lo scacchiere asiatico, il conflitto con la Cina costringe a rinsaldare i rapporti con i paesi della cintura intorno ad essa (dal Vietnam al Giappone), tessuta con tanta cura dall’amministrazione Obama. I programmi di disimpegno dovrebbero essere seriamente rivisti, perché il rischio sarebbe quello di consolidare un asse indo-nipponico che va a trattare con la Cina, approfittando del fatto che anche essa sarebbe indotta a fare più concessioni ai suoi vicini per reggere l’urto con gli Usa. E questo metterebbe in moto un effetto domino con ricadute sino alla Turchia, Israele ecc.

Insomma, nel bene o nel male, il difficile e precario asse fra Pechino e Washington è quello che ha retto il Mondo in questi 8 anni di crisi e, anche se parlare di Chimerica o di G2 o di nuovo bipolarismo è stato certamente eccessivo, nel complesso, su questo equilibrio si è basato l’equilibrio mondiale ed una vera guerra commerciale (quella del 2009 fu solo una scaramuccia) metterebbe in discussione tutto. Altro che disimpegno americano. Il che ci porta ad un altro tema: ma, nel 2016, può esistere una America isolazionista? Ma ne parliamo prossimamente.

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