Uno dei nodi più difficili da sciogliere per Trump è il “dossier Cina”. In primo luogo c’è il capitolo delle relazioni dirette
che contempla il problema delle relazioni commerciali: Trump ha
promesso il ritorno dell’auto a Detroit e, più in generale, della
manifattura in Usa. Si può capire che questo è uno dei capisaldi della
sua idea di America, solo che non si vede come sia possibile farlo senza
porre un limite alla concorrenza cinese e qui la soluzione a breve è
una sola: dazi protezionistici.
Soluzione ovviamente sgradita ai cinesi
che scatenerebbero una guerra commerciale. Volendo costringere i cinesi a
rivalutare lo yuan, ci provò Obama nel 2009, ma gli andò male (i
cinesi risposero subito per le rime, rialzando i loro dazi sui prodotti
americani e la guerra finì subito perché Obama capì l’antifona. Il fatto
è che i cinesi, da questi punto di vista hanno nelle mani l’arma
assoluta, essendo i massimi creditori degli Usa: 1.200 miliardi di
dollari su un totale di circa 19.000 miliardi quindi quasi il 13% (dati
Sole 24 ore 25 maggio 2016) e nel 2009 la quota era decisamente
maggiore, circa il 20% se la memoria non mi inganna.
Per quanto i cinesi abbiano rallentato l’acquisto di bond Usa,
e la situazione sia migliorata, da questo punto di vista, una guerra
commerciale con la Cina non è la mossa più consigliabile per Trump,
soprattutto in vista della stretta che vorrebbe imporre alla Fed. Se i
cinesi rifiutassero di acquistare bond man mano che essi vengono a
scadenza, la situazione finanziaria degli Usa si farebbe grigia, visto
che hanno un debito che ha già saturato il mercato ed è facile prevedere
che il tetto sarà nuovamente sfondato, per cui ricollocare una quota
aggiuntiva non sarebbe semplicissimo, a meno di interessi decisamente
più alti. E le banche americane non sono nel momento più brillante
(anche se quelle europee stanno messe peggio). Dunque, potrebbe essere
una mossa con effetti molto pesanti.
Poi c’è l’aspetto delle relazioni indirette:
una guerra economica fra Usa e Cina rialzerebbe di molto il potere
contrattuale dei russi da un lato e di Giappone, Vietnam e India
dall’altro. Infatti, nei confronti della Russia ancora non capiamo cosa
voglia fare Trump e (quasi tramontata la candidatura di Flynn) si
capisce poco di cosa voglia fare Giuliani.
Comunque, sarebbe un dialogo con gli Usa
in posizione svantaggiosa, nel caso di scontro con la Cina. Per quanto
riguarda lo scacchiere asiatico, il conflitto con la Cina costringe a
rinsaldare i rapporti con i paesi della cintura intorno ad essa (dal
Vietnam al Giappone), tessuta con tanta cura dall’amministrazione Obama.
I programmi di disimpegno dovrebbero essere seriamente rivisti, perché
il rischio sarebbe quello di consolidare un asse indo-nipponico che va a
trattare con la Cina, approfittando del fatto che anche essa sarebbe
indotta a fare più concessioni ai suoi vicini per reggere l’urto con gli
Usa. E questo metterebbe in moto un effetto domino con ricadute sino
alla Turchia, Israele ecc.
Insomma, nel bene o nel male, il
difficile e precario asse fra Pechino e Washington è quello che ha
retto il Mondo in questi 8 anni di crisi e, anche se parlare di
Chimerica o di G2 o di nuovo bipolarismo è stato certamente eccessivo,
nel complesso, su questo equilibrio si è basato l’equilibrio mondiale
ed una vera guerra commerciale (quella del 2009 fu solo una
scaramuccia) metterebbe in discussione tutto. Altro che disimpegno
americano. Il che ci porta ad un altro tema: ma, nel 2016, può esistere
una America isolazionista? Ma ne parliamo prossimamente.
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