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22/11/2016

Livorno, la questione bianca

In pochi giorni, tra la trasmissione di Rai 2 che ha trattato l’occupazione del palazzo Maurogordato e l’iniziativa sulle mutazioni di Livorno alla Goldonetta, emerge un tema ben chiaro da affrontare per i prossimi anni. Quello che, per comodità di esposizione chiamiamo la questione bianca. Che cosa vogliamo dire? Ad occhio stiamo parlando della brutale doppia convergenza nelle dinamiche di crisi sia delle classi medie che di quelle subalterne, entrambe native, del nostro territorio.

La crisi di Livorno, gestita per un ventennio, seria da un decennio, drammatica da un lustro, ha portato ad una vera e propria spoliazione delle risorse, e persino delle capacità di relazione sociale, sia dei ceti medi sia delle classi subalterne. Il fatto che la crisi sia così generalizzata – e si rilevi da indicatori molto diversi dall’emigrazione qualificata al tasso di sfratti – comporta una pericolosa erosione della spina dorsale della città. Pericolosa sul piano sociale ed economico. Certo i ceti dirigenti, dagli anni ’90, hanno imparato ad impermeabilizzarsi alle crisi del territorio, per cui quando quest’ultimo cedeva i ceti dirigenti rimanevano in piedi, ma nessun processo, come abbiamo visto nel 2014, esiste per sempre. Tanto meno se la crisi radicale diventa crisi radicale permanente. Chiamiamo il risvolto sociale di questi fenomeni questione bianca. Perché riguarda i nativi, il grosso della città, bianchi residenti anche da generazioni. Ma la chiamiamo così anche perché l’importazione di categorie di lettura dal mondo angloamericano l’ha resa così.

Un esempio? La lettura automatica di parti significative di società in minorities (neri, arabi, gay, donne, subculture metropolitane etc.) e communities (il risvolto territoriale di queste minorities, a volte letto con romanticismo sociologico). Concezioni da tardi anni '70 della sociologia britannica, gratta gratta. Concezioni che trovavano però un punto cardine: il grosso della società, che faceva perno su una classe media solida e su una classe operaia dei diritti garantiti, teneva nonostante le già forti trasformazioni del decennio pre-Thatcher. Insomma una infrastruttura sociale forte, secondo questa concezione, e le minorities da studiare e integrare. Tutto questo lessico, ampiamente americanizzato prima e italianizzato poi, è stato importato nel nostro paese. Sempre nella presunzione, alla quale non è estranea molta sociologia cattolica, che il grosso della società dovesse farsi carico degli “ultimi” poi anglicizzati in tante categorie multicolore da una sinistra che ha perso il senso storico della distanza dalla chiesa (salvo i gay, indigeribili per le autorità ecclesiastiche romane). Il problema è che, dal punto di vista del carico di responsabilità sociali, il grosso (ceti medi e ceti subalterni) oggi non solo non sa raccogliere questo messaggio ma, soprattutto, non è in grado di sopportare questo peso. E’ a livello di isteria, in termini di psicologia collettiva, e di forte depauperamento di risorse, in termini economici. Tanto da rendere difficile una solidarietà sociale, così come pensata in termini di origine cattolica (la società che si fa carico degli ultimi, anglicizzati in minorities nel lessico di sinistra).

Livorno nel corso dei decenni, anche per la pigra natura concertativa dei suoi servizi sociali, ha sempre adottato questa impostazione, viste anche le ristrutturazioni amministrative che l’hanno attraversata: cattolicesimo degli esclusi e anglicismo delle minorities l’hanno fatta sempre da padroni nell’impostazione delle politiche sociali. Il punto è che, a livello locale come nazionale, si presupponeva che si dovesse intervenire sugli esclusi, o le minorities, e che il grosso della società tenesse. Dopo anni di crisi, il grosso non ha tenuto o, se si preferisce, tiene sempre di meno. Infatti esclusi e inclusi, minorities e bianchi si guardano in cagnesco perché si vedono come concorrenti, in uno spazio di assistenza e di diritti, che è sempre più ristretto.

Oggi infatti la crisi è così forte, nonostante le statistiche fantasiose del presidente del consiglio, che, sui territori, non solo gli esclusi non si sono mai veramente inclusi, ma anche gli inclusi stanno raggiungendo rapidamente la stessa condizione sociale degli esclusi. Livorno è una rappresentazione plastica di come l’ex infrastruttura sociale di un territorio, bianca, stia rapidamente arrivando al livello delle stesse minorities che dovrebbe aiutare a emancipare. La questione bianca, in questi termini, si poteva intravedere dieci anni fa e diviene palese oggi. Nella crisi più radicale, non solo economica quindi, delle forze politiche municipali non dal dopoguerra ma da sempre. E, viene da dire, la questione bianca l’hanno capita anche i neri. Infatti, chi può fugge, viste le condizioni di Livorno. L’hanno capita tutti meno la sinistra che recita ancora linguaggi, e proposte, anni ’90. Che, inascoltati, non servono a tutelare i neri e trovano la crescente, non indifferenza, ma ostilità dei bianchi.

E’ evidente che l’amministrazione attuale non ha gli strumenti per affrontare questa crisi. Per due motivi: non li ha ereditati, dal punto di vista economico e cognitivo (basti ricordare la chiusura dei quaderni del SEL livornese, Cosimi style), e non li sa costruire. Altrimenti, avrebbe evitato ai livornesi lo spettacolo di una carta di sostegno alla spesa per poche decine di persone propagandata per reddito di cittadinanza (ricordiamo che, nell’accezione minima, reddito di cittadinanza significa dare possibilità a CHIUNQUE di accedere a livelli di vita che permettano di essere pienamente cittadino). Francamente non preoccupa tanto un assessore, destinato a sparire velocemente, che non è una vera espressione del territorio che, ogni tanto, si lascia andare, quando parla di servizi sociali, a affermazioni che ricordano tanto argomenti alla Le Pen. Preoccupa che alla visita della sindaco leghista di Cascina, comunque ampiamente meno affollata di quella del sindaco di Napoli nella stessa sala, circolino interventi di questo tipo “Mio nonno.. è stato uno degli scissionisti del 1921, ho avuto tre nonni partigiani, da giovane sono stato iscritto alla Fgci”. Il genere lo conosciamo, compreso il fatto che gli scissionisti del ’21, forza dell’epica popolare, stando alla naturale dinamica della moltiplicazione dei racconti, potrebbero essere tranquillamente il doppio della popolazione di Livorno di allora. Sappiamo che, a Livorno, questa formula di presentazione significa legittimare qualcosa. E oggi si prova a legittimare la peste leghista. E’ un problema, risvolto velenoso della questione bianca livornese.

Livorno è stata etnicizzata, rappresentata in termini di etnie quindi pensata come una colonia (e questi processi) secondo una cultura dove concetti amministrativi, cattolici e di sinistra si toccano. Le politiche coloniali, entrate nel governo dei territori nei mondi anglosassoni praticamente da sempre, servono per dividere la popolazione. E, come accade oggi, la reazione spontanea della popolazione alimenta questo genere di divisioni e di disgregazione sociali. Il suicidio vero, però,’ sarebbe non vedere la questione sociale livornese nella sua complessità. Dove esclusi e inclusi si somigliano sempre di più. E dove i “bianchi”, ex ceto medio ed ex classe operaia non ce la fanno più ad essere sia sé stessi che spina dorsale della città. Oggi tutto questo si esprime in un diffuso senso del disorientamento. Ma la politica non si deve occupare, tanto, dell’oggi quanto di garantire un domani. Anticipando i processi per prevenirli.

Se la guardiano con queste lenti, allora, deve essere chiaro che Livorno ha una questione bianca gravissima. E, su molta pelle bianca, a Livorno, c’è tatuata la falce col martello. Non dimentichiamolo. Sia per i rischi, perché la mortificazione dei simboli portati sulla pelle può essere socialmente pericolosa, che per le opportunità. Perché Livorno ha un’identità sociale che tende a riemergere quando si organizza. Tenendo conto di novità e aggiornamenti. Come sempre accade nelle culture che reagiscono.

Redazione, 21 novembre 2016

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