Come una miniera inesauribile, gli Uber leaks continuno a seminare conoscenza sulla struttura del sistema economico neoliberista. Quello che viene fuori, infatti, non sembra affatto una cosa “eccezionale e straordinaria”, ma l’accecante normalità quotidiana del capitalismo occidentale.
Nella prima puntata dell’inchiesta del Guardian, uno dei destinatari dei file, erano stati messi all’indice alcuni dei politici più coinvolti nel “favoreggiamento” della piattaforma che ha provato a sostituire il servizio taxi di tutto il mondo (Macron, Netanyahu, Renzi, Osborne, ecc.).
Nella seconda puntata vengono sputtanate altre due colonne istituzionali della “democrazia liberale”: le principali università dei vari paesi e i principali media. Ossia chi deve “certificare” scientificamente gli effetti – positivi o negativi – di certi modelli di business e chi deve costruire la “narrazione” (l’informazione è tutt’altra cosa...) con cui indottrinare il pubblico, che diventa poi l’elettorato.
Il che, diciamolo seriamente, cancella qualsiasi discorso sulla “libertà” di cui godremmo per il solo fatto di poter mettere una crocetta su una scheda elettorale, ogni tanto... Se vieni nutrito di false informazioni “autorevoli”, ossia fake news ad uso e consumo dal sistema economico, il tuo parere è poco più di un “consenso malinformato”.
Anche in questo caso vengono denunciate sia “celebrità” dell’accademia internazionale, sia autentici totem dell’informazione economica mondiale. A partire ovviamente dalla bibbia del neoliberismo finanziario, il Financial Times.
Il meccanismo è così banale da sfiorare l’ovvio. Uber pagava ricerche “scientifiche” per utilizzarne i risultati sia sul piano pubblicitario che su quello della “persuasione occulta” tramite i media.
Un gioco di “narrative” che in un attimo rimbalzava sulla classe politica, liberando dalle critiche i decisori a libro paga di Uber e tacitando gli oppositori, “schiacciati” da pareri che avevano tutti i crismi della “scientificità” grazie al prestigio accademico dei ricercatori.
Probabilmente ci saranno altre puntate, e noi saremo qui per informarvi (che è il nostro impegno militante, non una “narrazione”).
Nella prima puntata dell’inchiesta del Guardian, uno dei destinatari dei file, erano stati messi all’indice alcuni dei politici più coinvolti nel “favoreggiamento” della piattaforma che ha provato a sostituire il servizio taxi di tutto il mondo (Macron, Netanyahu, Renzi, Osborne, ecc.).
Nella seconda puntata vengono sputtanate altre due colonne istituzionali della “democrazia liberale”: le principali università dei vari paesi e i principali media. Ossia chi deve “certificare” scientificamente gli effetti – positivi o negativi – di certi modelli di business e chi deve costruire la “narrazione” (l’informazione è tutt’altra cosa...) con cui indottrinare il pubblico, che diventa poi l’elettorato.
Il che, diciamolo seriamente, cancella qualsiasi discorso sulla “libertà” di cui godremmo per il solo fatto di poter mettere una crocetta su una scheda elettorale, ogni tanto... Se vieni nutrito di false informazioni “autorevoli”, ossia fake news ad uso e consumo dal sistema economico, il tuo parere è poco più di un “consenso malinformato”.
Anche in questo caso vengono denunciate sia “celebrità” dell’accademia internazionale, sia autentici totem dell’informazione economica mondiale. A partire ovviamente dalla bibbia del neoliberismo finanziario, il Financial Times.
Il meccanismo è così banale da sfiorare l’ovvio. Uber pagava ricerche “scientifiche” per utilizzarne i risultati sia sul piano pubblicitario che su quello della “persuasione occulta” tramite i media.
Un gioco di “narrative” che in un attimo rimbalzava sulla classe politica, liberando dalle critiche i decisori a libro paga di Uber e tacitando gli oppositori, “schiacciati” da pareri che avevano tutti i crismi della “scientificità” grazie al prestigio accademico dei ricercatori.
Probabilmente ci saranno altre puntate, e noi saremo qui per informarvi (che è il nostro impegno militante, non una “narrazione”).
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Uber ha pagato centinaia di migliaia di dollari ad accademici di alto profilo in Europa e negli Stati Uniti per produrre relazioni che potessero essere utilizzate in funzione della campagna di lobbying dell’azienda.
I file di Uber, una raccolta di migliaia di documenti riservati trapelati al Guardian, rivelano accordi lucrativi con diversi accademici di spicco, pagati per pubblicare ricerche sui “vantaggi del suo modello economico”. I rapporti sono stati commissionati mentre Uber lottava contro le autorità di regolamentazione nelle principali città del mondo.
Gli economisti universitari sono stati ingaggiati in Francia e Germania, dove nel 2014-15 l’applicazione delle norme da parte delle autorità è stata sempre più feroce.
La relazione di un accademico francese, che ha chiesto un compenso di 100.000 euro per la consulenza, è stata citata in un rapporto del 2016 del Financial Times come prova che Uber era una “via d’uscita dalle banlieues francesi”, con grande gioia dei dirigenti di Uber.
Utilizzando tecniche comuni alle campagne politiche dei partiti, Uber si è rivolta ad accademici e think-tank per farsi aiutare a costruire una “narrativa positiva”, ovvero che creava posti di lavoro ben retribuiti e graditi agli autisti, forniva trasporti economici ai consumatori e incrementava la produttività.
I documenti mostrano come i suoi lobbisti abbiano pianificato di utilizzare la ricerca accademica come parte di una linea di produzione di “munizioni politiche” da fornire ai politici e ai media.
L’obiettivo era quello di utilizzare la ricerca per aumentare la pressione per modificare le regole (e le leggi) che Uber stava eludendo. Mentre il coinvolgimento di Uber nelle relazioni è stato menzionato, dai file trapela come volesse usare il lavoro degli accademici e la loro reputazione per promuovere i propri obiettivi, e quanto fosse disposta a pagarli.
In Francia, l’accordo di consulenza da 100.000 euro è stato negoziato con un astro nascente dell’economia universitaria, il Prof. Augustin Landier, della Toulouse School of Economics.
Landier ha accettato di produrre un rapporto che, nelle e-mail inviate al team di Uber che si occupa di politica e comunicazione, ha descritto come “utilizzabile per le pubbliche relazioni dirette per dimostrare il ruolo economico positivo di Uber”.
Landier ha proposto di collaborare con David Thesmar, un altro professore di alto profilo della più importante scuola di economia francese, l’École des Hautes Études Commerciales de Paris (HEC).
Durante le discussioni del febbraio 2015, i dirigenti di Uber hanno fatto notare che, sebbene il prezzo fosse alto, ne sarebbe valsa la pena, soprattutto se avessero lavorato sui messaggi del rapporto “per garantire che non fosse presentato in una luce potenzialmente negativa”.
Il rapporto è arrivato nel mezzo di un intenso dibattito sulla perdita di posti di lavoro causata da Uber, con Emmanuel Macron, all’epoca ministro dell’economia francese, che al tempo aveva cercato di imporre cambiamenti legislativi a suo favore.
Un membro del team politico di Uber scrisse all’epoca che “una convalida quantificata del nuovo tipo di lavoro creato da Uber in Europa, specialmente se condotta da un economista della rinomata statura di Landier, ci aiuterebbe enormemente”.
Gli studiosi erano entusiasti dei dati di Uber perché fornivano una rara prova in tempo reale dell’effetto dei prezzi sui mercati, una delle questioni chiave per gli economisti liberali che sostengono il libero mercato.
In cambio del compenso per la consulenza, Landier voleva anche produrre uno studio separato non retribuito utilizzando i dati di Uber.
La fuga di notizie sui file aziendali mostra che i dirigenti di Uber erano preoccupati che ciò avrebbe comportato “la perdita del controllo editoriale”, ma un membro senior del management ha concluso che: “Vediamo un rischio basso in questo caso, perché possiamo lavorare con Landier sull’inquadramento dello studio e decidiamo anche quali dati condividere con lui”.
Il giorno prima della pubblicazione del rapporto di Landier e Thesmar, nel marzo 2016, è apparso l’articolo del FT che lo citava. “Le app di ride-hailing hanno creato posti di lavoro per i giovani più poveri di Parigi, ma si profila una stretta normativa”, si leggeva nell’articolo.
Il rapporto ha un terzo coautore, Daniel Szomoru, un economista interno di Uber. Il suo impiego e l’accordo di consulenza accademica con Uber sono stati citati in una nota a piè di pagina, ma non i dettagli del compenso. Né Szomoru, né il fatto che il rapporto sia stato pagato da Uber, sono stati menzionati nel pezzo del FT.
Alcune delle qualifiche chiave del rapporto non sono state riportate dalla stampa, tra cui la conclusione degli accademici secondo cui gli autisti Uber che non guadagnavano bene tendevano ad abbandonare la piattaforma.
Il rapporto descriveva come questi autisti ricevessero “pagamenti” in media di 19,90 euro all’ora. Ma questo non tiene conto dei costi sostanziali che gli autisti devono sostenere – come il noleggio dell’auto, l’assicurazione e il carburante – che devono essere dedotti da questo “pagamento” medio prima di poter calcolare i guadagni.
Nell’articolo del FT, che è stato ritwittato da Landier e da altri, questo è diventato semplicemente: “La maggior parte guadagna 20 euro all’ora, più del doppio del salario minimo”.
Uber era entusiasta della storia del FT. Un dirigente ha scritto: “Wow!”, congratulandosi con il team che “ha fatto centro”.
Il FT ha dichiarato che il suo articolo si basava su un ampio reportage sul campo che copriva gli aspetti negativi dell’attività di guida per Uber, tra cui la bassa retribuzione, e i vantaggi, e che non era stato contattato in modo proattivo o informato da Uber. Un portavoce ha dichiarato di aver citato altri esperti oltre a Thesmar e di aver chiarito che il suo lavoro si basava sui dati di Uber.
Landier e Thesmar hanno dichiarato che la loro consulenza a pagamento per Uber era dichiarata e trasparente. Ma non hanno voluto commentare ulteriormente.
In Germania, dove nel 2014 le autorità stavano dando un giro di vite alle violazioni delle normative da parte di Uber, il Prof. Justus Haucap, economista di spicco dell’Istituto di Economia della Concorrenza (DICE) dell’Università di Düsseldorf, ha accettato di produrre uno studio sui “benefici per i consumatori derivanti dalla liberalizzazione del mercato tedesco dei taxi”.
Lo studio è stato condotto in collaborazione con un ramo di consulenza dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (DIW), descritto dai dirigenti di Uber in alcune e-mail interne come “il thinktank che ha maggiore influenza sull’attuale governo [tedesco]”, dietro un compenso di 48.000 euro più IVA (come rivelato dai leaks).
Gli accademici avrebbero dovuto contribuire a promuovere la ricerca in occasione di eventi e sulla stampa, come risulta da un contratto di servizio e da fatture.
Haucap ha lanciato il rapporto in occasione di eventi per influencer e politici a Berlino.
Haucap, la sua società di consulenza DICE Consult e il DIW hanno dichiarato che, sebbene i dati siano stati forniti da Uber, lo studio ha rispettato “rigorosi standard scientifici indipendenti” e non è stato predeterminato da Uber. Hanno aggiunto che è stato identificato come un “rapporto pagato da Uber”.
Uno dei primi accordi conclusi da Uber con accademici di alto livello è stato quello con il Prof. Alan Krueger dell’Università di Princeton negli Stati Uniti nel 2015. Krueger era stato il principale consigliere economico di Barack Obama ed era famoso come autorità in materia di aumento del salario minimo legale, quindi aveva una particolare influenza quando si trattava di sostenere l’impatto di Uber sull’occupazione.
I file di Uber rivelano per la prima volta che è stato pagato circa 100.000 dollari per uno studio che è stato ampiamente citato a sostegno di Uber come creatore di “buoni posti di lavoro”... proprio perché operava al di fuori delle regole. Nelle e-mail interne di Uber si legge che era “disponibile con la stampa”.
Lo studio ha poi suscitato polemiche. Krueger, che è morto nel 2019, ha riconosciuto il suo lavoro di consulenza a pagamento per Uber, ma non ha mai detto quanto fosse stato pagato. Altri accademici hanno affermato che le sue conclusioni non potevano essere sottoposte a revisione paritaria perché i dati non erano stati condivisi apertamente.
Uber ha affermato che l’apertura dei suoi dati ai ricercatori ha fornito importanti spunti di riflessione sulla natura mutevole del lavoro e della mobilità, e che nei casi in cui ha pagato gli accademici il rapporto è sempre stato reso noto.
Il rapporto di Landier e Thesmar ha chiarito che le cifre “pagate” fornite non tenevano conto dei costi dei conducenti, aggiungendo che i dataset di Uber erano disponibili per le persone che volevano esaminare la ricerca se firmavano un accordo sull’uso dei dati.
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