di Francesco Dall'Aglio
L’arrivo, il 1 settembre, della delegazione dell’IAEA (International Atomic Energy Agency) nella centrale nucleare di Zaporožye (o di Zaporižžja, secondo la dicitura ucraina), e soprattutto l’annuncio che una delegazione resterà sul territorio della centrale per un tempo indefinito, ha interrotto finalmente i bombardamenti cui la centrale era sottoposta da alcune settimane e messo un freno, almeno momentaneamente, a una storia che fin dal principio ha presentato una notevole serie di ambiguità, volute o semplicemente mal riportate dai media.
La prima ambiguità ha a che fare con il nome stesso della centrale: si trova a Energodar, non a Zaporižžja, dalla quale la separano 52 chilometri e il fiume Dnepr, in uno dei suoi tratti più larghi. Ed è certamente vero che la città, che a differenza della centrale si trova nella zona sotto controllo ucraino, è stata colpita a più riprese dagli attacchi missilistici russi, ma questi attacchi erano diretti appunto alla città e alle sue installazioni militari (auspicabilmente), non alla centrale.
L’omonimia però ha certamente pesato in quella che è stata per tutto il mese di agosto una delle notizie più battute dalle agenzie mondiali: “la Russia sta bombardando la centrale nucleare di Zaporižžja, e si rischia una catastrofe più terribile ancora di quella di Černobyl“.
Che sulla centrale siano caduti missili e proiettili di artiglieria è certamente vero. Resta da capire chi li ha sparati, e perché. E che conseguenze avrebbero potuto avere.
La centrale di Zaporižžja è la più grande centrale nucleare d’Europa per produzione di energia e, se vi interessano questi dettagli, la nona più grande al mondo. Ha sei reattori nucleari, cinque dei quali risalenti agli anni ‛80 e l’ultimo messo in funzione nel 1995, con una capacità nominale totale di 5700 MW, per una produzione annua che si aggira intorno ai 38.000 GWh.
Produce circa un quinto dell’energia totale prodotta in Ucraina, che non è poca, e come se non bastasse accanto alla centrale nucleare sorge una centrale termoelettrica alimentata principalmente a carbone, che al momento però è ferma per problemi di approvvigionamento.
Fino al 4 marzo Zaporižžja era operata dalla Energoatom, la compagnia statale ucraina: ora il personale è ancora quello ucraino ma la gestione è passata alla Rosatom, la compagnia statale russa. È ancora collegata alla rete ucraina, che continua a ricevere elettricità dalla centrale come se nulla fosse cambiato: una delle tante stranezze di questa guerra (anzi, ‟operazione speciale”), assieme al gas russo che continua a scorrere nei gasdotti ucraini, per i quali Kiev continua a incassare le royalties che la Gazprom versa regolarmente.
Questa situazione, però, è destinata certamente a cambiare in un futuro più o meno prossimo: ed è per questo che sulla centrale si è scatenato questo diluvio, fortunatamente più mediatico che di esplosivi.
Una delle discussioni che raramente si fa sulla guerra in Ucraina è quella relativa alla situazione energetica del Paese. L’Ucraina è non solo autosufficiente dal punto di vista energetico, ma è anche un paese esportatore: o meglio lo era, prima che scoppiasse il conflitto.
Dall’inizio delle ostilità la Russia ha messo le mani non solo su Zaporižžja e sulla sua sorella termoelettrica (spenta), ma su altre tre centrali termoelettriche di medie dimensioni (circa 2000 MW di capacità nominale a testa) e, dal 26 luglio, sulla centrale termoelettrica di Vuhleris’k, che si trova a Svitlodarsk e ha una capacità nominale di 3600 MW, anche se i danni subiti dalla centrale, che a differenza delle altre è stata conquistata dopo accesi combattimenti nella zona e nella centrale stessa, hanno in parte interrotto la sua produzione che avrà bisogno di tempo per essere riattivata.
Tutte queste centrali sono, ovviamente, alimentate a carbone: ovviamente perché il Donbass è il bacino carbonifero per eccellenza dell’ex-Unione Sovietica, e non c’è e verosimilmente non ci sarà per un bel pezzo carenza di combustibile.
L’Ucraina ha, in pratica, perduto quasi metà della sua produzione energetica: immaginando tutte le centrali in piena attività, stiamo parlando di 15.300 MW, una quantità esorbitante. Per ora, come già detto, le linee tra Ucraina e territorio occupato dai russi sono ancora attive. Le centrali producono, gli abitanti pagano le bollette, si presta molta attenzione a non danneggiare le linee, ma questo stato di cose non è destinato a durare.
Il destino dei territori occupati, al di là del Donbass e della Crimea, non era stato chiaro fin dal principio. Nessuno di essi rientrava negli obiettivi dichiarati dell’operazione ‟speciale” che, va ricordato, non prevedeva modifiche territoriali tranne l’indipendenza, ed eventualmente la federazione con la Russia, delle intere oblast’ di Donetsk e Lugansk.
Più passava il tempo, però, più la situazione amministrativa cambiava. Tutti questi territori saranno oggetto, in un futuro molto prossimo, di referendum che certamente ne sanciranno l’annessione alla Federazione Russa.
Altrettanto certamente saranno contestati e giudicati non validi dall’Ucraina e dagli stati occidentali (e verosimilmente dalle Nazioni Unite), ma come per la Crimea e il Donbas prima dell’inizio del conflitto quelle zone saranno de facto russe, qualsiasi cosa dicano oltre i loro confini.
Il che significa che la rete elettrica sarà allacciata a quella russa e sganciata da quella ucraina, e il paese si troverà non solo privato delle sue aree produttive più importanti, ma anche non più autosufficiente dal punto di vista energetico perché le centrali rimaste sotto il suo controllo non saranno sufficienti a questo scopo.
Sergej Kirienko, ex primo ministro russo già stra-sanzionato dagli USA e dalla Gran Bretagna, ora vice capo dell’amministrazione presidenziale e recentemente nominato responsabile dei territori occupati, ha già comunicato la disponibilità russa a vendere energia all’Ucraina alla fine del conflitto, energia che verrebbe prodotta nelle stesse centrali ora amministrate dalla Russia.
L’Ucraina si troverebbe legata a doppio filo alla Russia come sua prima fornitrice energetica. Una catastrofe economica, oltre che una beffa.
Non sorprende, dunque, che riprendere il controllo di Zaporižžja significherebbe molto per l’Ucraina, non tanto in termini di orgoglio patriottico quanto proprio di economia. Un’operazione militare diretta a riconquistare la centrale potrebbe però avere conseguenze devastanti, in tutti i sensi.
Ecco perché il governo ucraino ha tentato la strada dell’offensiva diplomatica, all’inizio accusando la Russia di gestire male la centrale, con frequenti violazioni delle norme di sicurezza (sebbene l’IAEA e gli altri organi di controllo non abbiano rilevato aumenti della radioattività generale), come già successo all’inizio dell’invasione con Černobyl’ (anche lì, nessun aumento registrato se non assolutamente minimo e dovuto solo al maggior passaggio di uomini e veicoli nella zona); poi di utilizzare la centrale a scopi militari, stoccandovi armi e munizioni che, in caso di incidente, avrebbero potuto provocare una catastrofe; infine, di bersagliare la centrale con missili e artiglieria, anche se lo scopo presunto di questi bombardamenti non è stato specificato, al di là di un generico ‛terrorismo nucleare’ e ‛ricatto all’Occidente’.
Il governo russo non solo ha negato tutte le accuse, ma ha rilanciato: la centrale è amministrata in maniera scrupolosa e tutte le norme di sicurezza vengono rispettate; gli unici militari presenti sul territorio della centrale sono coloro che la sorvegliano, e certo non ci sono stoccate armi e munizioni; infine, che è l’esercito ucraino che bombarda la centrale per costringere la Russia ad abbandonarla anche a rischio di causare un incidente.
Uno dei momenti più surreali dell’intera vicenda è stata la comparsa, quasi contemporanea, di due mappe che indicavano la portata e la direzione della contaminazione che sarebbe seguita all’incidente: quella ucraina la riportava prima sul Donbass e poi, con un salto, sull’Europa occidentale, mentre quella russa solo sull’Ucraina centrale e occidentale, sulla Romania e sulla Polonia.
Entrambe però concordavano sul fatto che il Mar Nero sarebbe stato colpito gravemente, per via dell’acqua radioattiva che si sarebbe riversata nel Dnepr, cosa che ha scatenato la comprensibile preoccupazione delle nazioni rivierasche, Turchia inclusa.
Questa campagna, di bombardamenti e di diplomazia, si è ovviamente intensificata dopo che l’IAEA aveva espresso la volontà di andare a controllare sul campo, essendo molto preoccupata e per niente soddisfatta delle due contrapposte versioni; così come si è intensificata la richiesta da parte ucraina di un intervento della comunità internazionale per scongiurare la catastrofe data ormai per certa per colpa dell’irresponsabilità dei russi.
Tra le richieste fatte, obbligare la Russia al ritiro in nome della sicurezza dell’Europa intera o, in subordine, l’istituzione di una zona smilitarizzata gestita dall’ONU: richieste propedeutiche a un ritorno della centrale sotto controllo dell’Ucraina, che non solo ne è legalmente la proprietaria ma è l’unica, secondo questo discorso, che può assicurarne l’esercizio in sicurezza.
Col passare del tempo, però, si è avvertito da parte della diplomazia internazionale una certa indifferenza alla questione, culminata nell’affermazione, da parte statunitense, di non potere affermare con sicurezza chi è che stava effettivamente bombardando la centrale, e una strana equidistanza da parte della stampa e dei media.
Strana rispetto alla sempre grande disponibilità a sposare acriticamente la linea ucraina, anche in mancanza di prove certe (con l’eccezione, nemmeno a dirlo, dei nostri Repubblica e La Stampa, sempre in prima linea).
Perché c’è una cosa da dire, su tutta la vicenda: nessuno dei missili o dei proiettili che hanno colpito il territorio della centrale avrebbe potuto fare il minimo danno ai reattori, ai circuiti di raffreddamento o ai depositi di scorie. Non avrebbero potuto perforare il soffitto o le pareti.
Al massimo, come è successo un paio di volte, potevano far danni alle pavimentazioni esterne o causare temporanee interruzioni a una delle linee elettriche che servono la centrale. Ma mai la centrale è stata rischio di spegnimento, men che meno di meltdown. E questo, al di là delle bordate reciproche di propaganda, era noto a tutti, e certamente a entrambi i contendenti. L’effetto doveva essere mediatico, non certo distruttivo.
Resta da chiedersi, come in tutte le azioni umane, chi avrebbe potuto ricavare maggiori vantaggi dall’ipotetica ‛messa in sicurezza’ della centrale da parte delle Nazioni Unite, fermo restando che nessuno stava davvero pianificando un disastro nucleare: a chi scrive la risposta sembra chiara.
NB – Chi legge avrà notato che non ho fatto alcun accenno all’operazione dei commando ucraini che, a detta del Ministero della Difesa russo, all’alba del 1 settembre hanno tentato di sbarcare a Energodar mentre la delegazione dell’IAEA era ancora bloccata ai checkpoint tra Ucraina e territorio occupato dalla Russia.
Secondo la ricostruzione fatta circolare, un primo gruppo di 60 uomini a bordo di sei barchini è sbarcato a est della centrale, ma è stato subito bloccato ed eliminato dopo scontri a fuoco. Il suo obiettivo era prendere il controllo della centrale insieme a un altro gruppo che è partito dalla sponda ucraina una mezz’ora più tardi, a bordo stavolta di barconi, ma è stato intercettato prima che potesse sbarcare.
Presa la centrale, avrebbero messo la delegazione dell’IAEA di fronte al fatto compiuto e li avrebbero obbligati a dichiarare l’area smilitarizzata, sottraendola al controllo russo.
Al di là del fatto che dubito che i russi, in caso questo piano fosse andato a buon fine, avrebbero permesso all’IAEA di entrare nella centrale appena persa, al momento (e sono passati ormai quattro giorni) non sono state fornite prove, né fotografiche né di altro genere, di quanto affermato.
Un filmato che circolava ieri si è subito rivelato un falso abbastanza grossolano (‛cadaveri’ che sembravano tranquillamente addormentati, nemmeno una goccia di sangue o tracce di esplosioni, volti accuratamente coperti, documenti presentati chiusi quando invece le foto segnaletiche dei caduti li presentano sempre aperti, e via di seguito) verosimilmente architettato dagli ucraini che, se i canali russi l’avessero fatto passare per vero, ne avrebbero denunciato la falsità per screditarli.
Però, appunto, questo falso è stato architettato, e sui canali ucraini di questa operazione finita per loro male si parla come di cosa avvenuta sul serio. Perché allora da parte russa nemmeno una foto?
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