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11/02/2023

La guerra in Ucraina ci accompagna al baratro

Gli stati dell’Est e baltici vogliono in questo processo la loro fetta di torta.

Trovato un nemico comune per tutti i nazionalismi al di là del Reno, il problema per Washington è un governo della situazione che tenga conto di tutte le tensioni nazionali degli stati dell’ex URSS, per dosarli scagliandoli poi, possibilmente ad ondate, contro la fortezza russa. Ma giocare con i nazionalismi non è un'operazione tranquilla. Così la Polonia guarda all’ovest dell’Ucraina, come la Romania che guarda ai settori più meridionali, i baltici insidiano il settore centro-Nord occidentale , dove la Bielorussia rappresenta una linea di difesa ancora troppo salda per poter pensare ad un avanzamento come quello ucraino dell’ultimo decennio (su questo punto le tentate destabilizzazioni dello scorso anno subite da Minsk e rimandate al mittente sono indicative di una situazione ed un piano occidentale andato a male molto velocemente in questo settore).

Mentre fanno questo, ognuno di loro si guarda in cagnesco con l’altro, decisi, nel marasma dell’incendio che sotto spinta e finanziamento statunitense hanno contribuito ad appiccare, a strappare a morsi altri significativi pezzi territoriali limitrofi (magari giustificandolo con una delle infinite varianti del nuovo revisionismo).

Poi c’è l’Ungheria rappresentante di una situazione lievemente diversa rispetto agli stati prima menzionati, poiché pur avendo chiare mire territoriali, non si trova esattamente nel consesso occidentale, nel coagulo di questi nazionalismi, proprio perché le sue legature internazionali sono differenti sotto l’aspetto diplomatico-energetico.

Questi sono i desiderata più immediati. La situazione concreta ci racconta però una generale sottovalutazione del blocco eurasiatico da parte statunitense, una sottovalutazione dei meccanismi di difesa della Federazione russa che comportano due rischi dirimenti.

Il primo è un conflitto di posizione che, seppur da una parte esaudirebbe il vettore tattico statunitense dell’impantanare il Cremlino in una guerra paludosa, dall’altro inciderebbe troppo su scorte di magazzino flebili negli Stati occidentali già da ora, le cui capacità produttive verrebbero messe a dura prova per il raggiungimento del regime produttivo e strutturale adatto a mantenere sul campo questa posizione, soprattutto in virtù della attuale situazione energetica complessiva. Tradotto: servirebbe più tempo, soprattutto se consideriamo le pressioni che, nel computo energetico-minerario globale, gli occidentali dovrebbero operare in altri teatri internazionali, come il Medio Oriente, l’Africa e l’America Latina, zone dove l’operare imperialista ha comunque subito e sta subendo vari colpi di differenti intensità.

Il secondo è uno sfondamento possibile della Russia ad ovest, che insidierebbe le regioni ucraine più occidentali attraverso lanci a medio lungo raggio, cioè riuscendo così a garantirsi una zona cuscinetto indispensabile per l’attivazione dei meccanismi difensivi balistici a medio raggio e per una più favorevole area di manovra degli elementi di terra che garantirebbe almeno in parte una delle questioni più importanti avanzate dal Cremlino negli ultimi trent’anni di diplomazia internazionale, cioè la sicurezza relativa alle regole internazionali nell’ambito armamenti con relative regole di definizione riguardo lo spostamento e la costruzione delle infrastrutture adibite al lancio di elementi balistici ipersonici a lungo raggio (difficilmente il Cremlino darebbe il via ad un operazione di terra verso Kiev, essendo consapevole che a quel punto gli stati dell’Est sarebbero ancora più spinti ad entrare nel conflitto per non perdere tempo e prendersi ciò che vorrebbero dallo smembramento dell’Ucraina).

Il fatto che entrambi i fronti non possano mollare, sommato a questa veloce disamina, ci pone nel pericolo enorme di un conflitto allargato. A dirla tutta, almeno dalle dichiarazioni immediatamente successive al ricongiungimento territoriale delle due repubbliche del Donbass alla Federazione russa e del richiamo russo di oltre 300.000 riservisti (per non parlare dell’attentato anglosassone al North Stream), l’eventualità di un intervento diretto degli stati facenti parte del blocco imperialista occidentale pareva uno scenario sempre più probabile.

Probabilità che aumenta sempre di più, proprio perché, alla condizione descritta, la struttura imperialista necessità di scontri su larga scala sia per l’accaparramento delle risorse energetico minerarie, sia per la ristrutturazione produttiva necessaria a queste manovre di guerra, sia per la distruzione di capitale fisso, cioè tre motivi che se andiamo ad analizzare l'andamento capitalistico che prepara le guerre mondiali saltano, con le dovute tare storiche del caso, immediatamente all’occhio.

La situazione quindi è da una parte favorevole per il cambiamento dei rapporti di forza e per l’inizio di un ragionamento (che abbia come spettro temporale almeno il lungo termine) riguardo un nuovo luogo di colloquio tra i partiti autenticamente comunisti del mondo. E proprio perché favorevole in questi importanti ambiti, è pericolosa sia per le probabilità di conflitto aperto prima descritte, sia per il cosmico ritardo della maggioranza delle formazioni comuniste occidentali.

Fino a quando nel nostro ambiente l’infatuazione per la sinistra di regime e le sue “tesi” o l’ortodossia d’accatto (che vorrebbe essere il nuovo “che fare” ma in realtà è solo un misero “credo”) continueranno ad essere presenti, la nostra possibilità di incidere, di fare la nostra parte in questa epoca decisiva per l’umanità tutta, diventeranno sempre più irrisorie e faranno pagare lo scotto di questi ritardi ad una popolazione inerme di fronte a meccanismi offensivi attivati dalla tolda di comando di un capitalismo in crisi da cinquant’anni e arrivato al punto di non ritorno.

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